La gabbia
È in questa dimensione che il governo giallorosso oggi, come quello gialloverde prima del colpo di sole di Salvini, vive una crisi politica a bassa intensità permanente, senza un orizzonte progettuale e senza che nessuno abbia la forza di staccare la spina, al netto dei ruggiti di giornata. È la dimensione di una crisi che “si dice ma non si fa”, mai formalizzata, secondo le logiche della politica razionale e le antiche consuetudini repubblicane. In questo senso questa legislatura rappresenta una grande rottura istituzionale, in tempi di populismo perché tutto è lecito, come parola e prassi, anche maggioranza e opposizione dentro lo stesso governo.
È chiaro che tutta questa vicenda racconta una sorta di “morte in diretta” del progetto politico di Renzi, e di una sua crisi psicologica e di collocazione: l’idea di fare il Macron italiano riducendo il Pd al ruolo che in Francia ha il Ps è franata nel piccolo cabotaggio di una politica senza prospettiva e senza una complessiva “proposta di governo”, totalmente ego-riferita. Ma, al tempo stesso, in questo passaggio e in vista del prossimo, si chiami Autostrade o intercettazioni, Renzi ha ottenuto, di fatto, la licenza delle “mani libere”. Ha votato tre volte contro la maggioranza di cui fa parte, ha disertato un consiglio dei ministri di cui fa parte, si è concesso liceità semantiche e libertà di provocare, come il “cacciatemi” sapendo che nessuno lo farà, almeno per ora. E sapendo che non si può votare. E questo è l’unico argine istituzionale che porta alla crisi un minimo di logica. Il referendum istituzionale del 29 marzo non rinviabile, poi vanno ridisegnati i collegi, insomma prima di settembre non esiste nessuna finestra. Poi c’è la finanziaria: non è un caso – fu la discussione anche dello scorso anno – che in autunno non si è mai votato.
Ecco, dicevamo: la gabbia, dentro la quale si consuma una guerriglia tutta interna, tutta politicista, tutta priva di respiro. Nell’ossessiva ricerca di un capro espiatorio per giustificare il proprio fallimento nei consensi, Renzi ha eletto Conte a nemico da abbattere per arrivare a un nuovo governo guidato da chicchessia, ma sa che non tutti i suoi sono disposti a seguirlo nell’affondo finale. I ben informati raccontano che sarebbero sette i parlamentari che hanno riaperto canali col Pd. Nella sua tenace volontà di resistere il premier, pur consapevole di questo dato, è titubante rispetto all’ipotesi di forzare, sollecitando la formazione di un gruppo di “responsabili” a sostegno del governo, perché c’è sempre un margine di rischio. E sa che, in caso di caduta, a palazzo Chigi non torna più. In una condizione di normalità istituzionale, Conte avrebbe deciso di andare alle Camere, con una piattaforma chiara su cui chiedere la fiducia, e lo avrebbero chiesto i partiti che lo sostengono, mettendo in conto di incassarla (con la stessa maggioranza o con un’altra) o di cadere su una linea e su un progetto per l’Italia. Non lo farà, anzi neanche ci pensa. Perché questo principio istituzionale romperebbe la gabbia. Voi capite: siamo dentro una crisi che va ben oltre una crisi di governo mai formalizzata.
L’HUFFPOST
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