Perché il green new deal europeo rischia di essere un colossale flop
Per giunta, quei mille miliardi non ci sono neppure tutti. Nel piani della Commissione, 500 miliardi arriveranno dal bilancio dell’Unione dei prossimi dieci anni, che impegnerà il 25 per cento del proprio budget per i temi climatici. Altri 280 miliardi verranno da InvestEu, riedizione del piano Junker. Oltre 100 miliardi proverranno dai cofinanziamenti nazionali ai fondi strutturali europei e altrettanti dal Just Transition Fund, dedicato alla decarbonizzazione. I restanti venti miliardi saranno frutto della modifica dei regolamenti sugli aiuti di Stato alle imprese, oggi considerati illegali.
Così l’Europa si spartisce i fondi per abbandonare il carbone
Ecco come vengono ripartiti tra le diverse nazioni i finanziamenti per per la conversione delle centrali a carbone, gasolio e altre fonti inquinanti
Tuttavia, dei
380 miliardi del Just Transition Fund e di InvestEu ne verranno
stanziati solo trenta. Tutto il resto sarà generato da leve finanziarie,
come quelle del piano Junker che, tramite le garanzie
dell’Unione produrranno un effetto moltiplicatore sul bilancio della
Bei, la Banca Europea degli Investimenti, e a cascata, delle banche
promozionali nazionali (come l’italiana Cassa Depositi e Prestiti che fa
capo al ministero dell’Economia) e degli operatori finanziari,
generando quindi risorse addizionali, sino a movimentare
complessivamente 280 miliardi l’anno, più altri cento per il fondo di
transizione. Et voilà, ecco la cifra magica dei mille miliardi. Tuttavia, più che un piano, sembra una speranza,
come suggerisce Fabio Pammolli, professore di Economia al Politecnico
di Milano ed esperto indipendente del comitato investimenti Fondo
Junker, che ha avuto il compito di esaminare i progetti selezionati
dalla Bei per le valutazioni di merito sulla concessione della garanzia
di copertura economica. «Di nuovo la commissione segue l’approccio già
sperimentato con l’European Fund for Strategic Investments, il piano
Junker, e porta avanti l’idea che i progetti di sviluppo non vengano
sostenuti con il ricorso a finanziamenti a fondo perduto, bensì mediante
strumenti finanziari, mobilitati attraverso il sistema delle banche
nazionali di promozione e dalla Bei».
Per esempio, in passato il piano Junker in Italia ha attivato 69,7
miliardi di investimenti, partendo da 11,3 miliardi stanziati: significa
che, per ogni euro investito dall’Europa, l’Italia ne ha movimentati
6,2 grazie ad emissioni obbligazionarie, interventi pubblico-privato,
fondi di investimento a medio e lungo termine e così via. «Il problema
verte proprio su questa seconda leva, cioè sulla capacità dei singoli
paesi di attivare un pool di aziende private, fondi di investimento e
società pubbliche, che siano in grado di progettare e pensare abbastanza
in grande e con sufficiente dinamicità per promuovere investimenti che,
in assenza della garanzia, non si farebbero».
Così l’Europa si spartisce i fondi per abbandonare il carbone
Ecco come vengono ripartiti tra le diverse nazioni i finanziamenti
per per la conversione delle centrali a carbone, gasolio e altre fonti
inquinanti
Per capirci, nel primo atto del Green New Deal, cioè il Just
Transition Fund, i soldi disponibili sono 7,5 miliardi e si punta a
farli lievitare fino a 100 miliardi con il metodo delle leve:
vuol dire un moltiplicatore 13, più del doppio di quello che l’Italia è
riuscita a fare nel piano Junker. «Per via della scarsa capacità di
drenaggio di finanziamenti è possibile che questo obiettivo non verrà
raggiunto», spiega Pammolli, che continua: «Nel piano Junker, l’Italia è
stata capace di attrarre risorse su grandi progetti, non altrettanto
per il finanziamento di piani locali e piccoli, oltre a una ridotta
varietà di strumenti finanziari e una difficoltà delle strutture vicine
al perimetro pubblico – trasporto locale, infrastrutture ferroviarie,
reti idriche, aeroporti, progetti di rinnovamento urbano, partecipate
locali – a disegnare ed eseguire il sistema e la rete di contratti per
attivare i finanziamenti».
L’Italia, almeno quella delle regioni meno sviluppate e delle aree
interne, capisce solo il linguaggio dei finanziamenti a fondo perduto e
ha poca dimestichezza con leve economiche, finanza e progettualità
mista. In Francia, il governo centrale ha risolto le difficoltà tecniche
dei piccolo comuni nella presentazione di progetti di finanziamento
affidando alla Caisse de dépots (l’equivalente della nostra Cdp) il
compito di creare una piattaforma di investimento con capitali privati
che finanziasse il rinnovamento delle flotte di autobus delle città di
media e piccola dimensione. «Se l’Italia vuole intercettare i
finanziamenti del Green New Deal deve fare altrettanto, ripensare a
fondo il modello organizzativo per la presentazione dei progetti e
ridisegnare le istituzioni che sovrintendono questo mondo. Servirebbe
una cabina di regia del ministero dell’Economia, anche se, al momento,
non mi pare che questa sia una priorità per la politica».
L’assenza di un coordinamento non favorirà l’accesso di finanziamenti
per edilizia pubblica, ferrovie e reti di trasporto e, per il momento,
in solitaria, soltanto la Regione Lombardia si sta muovendo a Bruxelles
per intercettare i fondi. Restano in attesa le altre regioni, i
ministeri, ma anche la Confindustria che non ha ancora avviato programmi
e studi per intercettare la svolta verde.
I 7,5 miliardi di euro del Just Transition Fund serviranno alla transizione
degli impianti di produzione di energia inquinanti, quindi a carbone,
gas e petrolio, verso forme di generazione energetica meno impattanti.
È lo stesso fondo che a più riprese Paolo Gentiloni, commissario
all’Economia dell’Unione, e il premier Giuseppe Conte, hanno annunciato
di voler sfruttare per la conversione industriale dell’impianto
siderurgico Ilva di Taranto. La torta del Just Transition Fund è già
stata spartita. A prendersi le fette più grosse sono Polonia e Germania:
due miliardi alla prima, 877 milioni alla seconda, per convertire le
centrali a carbone di entrambi i paesi. Non senza parecchi mal di pancia
da parte degli esponenti degli altri paesi: lo scorso 12 dicembre la
Polonia si era rifiutata di firmare le conclusioni dell’European Council
sull’obiettivo di sconfiggere i cambiamenti climatici entro il 2050,
quindi Emmanuel Macron aveva annunciato che Varsavia non avrebbe
ricevuto alcun finanziamento, ma a quanto pare è andata diversamente e
il presidente francese non l’ha presa benissimo; mentre i tedeschi, che
hanno chiuso il 2019 con un avanzo di bilancio da 13,5 miliardi di euro,
hanno deciso di non commentare l’eccezionale allocazione dei fondi a
proprio favore. Del resto i fondi non sono ancora stati conteggiati
nella contabilità europea e non è scontato che i paesi del Nord Europa –
Svezia, Olanda, Austria e Belgio in testa – saranno disposti a
sganciare tutti quei quattrini, che finiranno per lo più nelle tasche
dei paesi dell’Est. «Il piano di investimenti decennale associato al
Green Deal, che dovrebbe partire dal 2021, dipende dall’approvazione del
bilancio dell’Unione, sul quale gli stati membri non hanno ancora
raggiunto un accordo», chiarisce l’economista della Commissione Europea,
Antonia Carparelli, che continua: «È una trattativa difficile perché
l’uscita del Regno Unito, che era uno dei maggiori contribuenti netti,
comporta esborsi più elevati da parte dei paesi relativamente più
ricchi, che sono soprattutto i paesi del Nord e ci sono forti resistenze
da superare».
All’Italia andranno 364 milioni, poca cosa se si considera che per la
sola conversione dell’Ilva servono tre miliardi, di cui almeno uno per
costruire una newco mista per produrre il minerale di ferro preridotto
con il gas, necessario per alimentare i due forni elettrici che dal
2023, secondo il piano del governo, affiancheranno gli altoforni quattro
e cinque, consentendo una parziale decarbonizzazione, con produzione
annuale a otto milioni di tonnellate di acciaio.
In base al sistema della leva finanziaria, gli investimenti per l’Italia saliranno a 4,8 miliardi: ma
cosa sta facendo il governo per attivare progetti, piattaforme di
collaborazione pubblico-private e rilanciare i territori più in
difficoltà? «Per ora nulla», risponde Edoardo Zanchini,
vicepresidente di Legambiente, all’indomani della presentazione del
rapporto Pendolaria, dove si evidenziano i problemi del trasporto
ferroviario in Italia. «Il Green Deal prevede risorse per la mobilità
sostenibile, ma il problema è che da noi si ragiona solo di grandi opere,
senza capire che il problema è l’assenza di treni e di linee
elettrificate, in particolare al Sud. Nel 2020 l’Italia dovrebbe
presentare una cura del ferro per le città con più metro, tram e treni
in circolazione lungo la penisola, in modo da essere pronti a candidarsi
per ricevere le risorse e muovere i cantieri già a partire dal 2021».
Il leader di Legambiente fa notare che i trasporti sono l’unico settore
in Italia che ha visto crescere le emissioni dal 1990 a oggi (più 2,4
per cento): «Il cambiamento deve accelerare, l’obiettivo deve essere il
raddoppio del numero di persone che ogni giorno prende treni regionali e
metropolitane – per farli passare da 5,7 a 10 milioni – e di favorire
tutte le forme di sharing mobility di auto, motorini, biciclette,
monopattini elettrici».
Nel cammino verso la sostenibilità, l’Italia resta ferma agli annunci
La sfida lanciata da Bruxelles e dal Green new deal, pur con tutti i suoi limiti, resta rivoluzionaria. E se non sapremo coglierla non potremo incolpare i burocrati dell’Unione Europea
Del resto è l’Unione Europea a chiedere agli stati di definire nel corso del 2020 i piani territoriali e nazionali per la transizione dei territori alle prese con la chiusura di centrali a carbone e inquinanti, «ma l’Italia non si è ancora mossa. Bisognerebbe andare nei territori, creare tavoli di confronto e elaborare progetti per dare un futuro ad aree che altrimenti rischiano di veder scomparire migliaia di posti di lavoro, come a Brindisi, Civitavecchia, La Spezia, Porto Torres, nel Sulcis, ma anche Gela e Milazzo. Siamo pronti a dialogare con il ministro dello Sviluppo Economico, ma malgrado il cambio di Governo non ci hanno ancora ricevuti», dice Zanchini. Ed è ancora la commissione europea a calcolare l’entità delle fonti inquinanti in Italia e di posto di lavoro coinvolti: quasi 60 milioni di tonnellate di co2 prodotta da aziende, che danno lavoro a 395.000 persone, cioè circa il cinque per cento degli addetti all’industria.
Chi sta pensando a un piano b per tutte queste tute blu? Per ora ancora nessuno.
L’ESPRESSO
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