Coronavirus, l’infettivologo Galli: «L’epidemia è partita da un ospedale. Ecco perché tanti casi in Italia»
Che cosa è accaduto dopo l’entrata del virus nell’ospedale di Codogno?
«L’epidemia
ospedaliera implica una serie di casi secondari e terziari, e forse
anche quaternari. Dobbiamo capire ora bene come si è diffusa l’infezione
e come si diffonderà. Che poi la trasmissione sia avvenuta inizialmente
davvero in un bar o in un altro luogo andrà verificato quando avremo a
disposizione una catena epidemiologica corretta. Quello che si può dire
di sicuro è che queste infezioni sono veicolate più facilmente nei
locali chiusi e per contatti relativamente ravvicinati, sotto i due
metri di distanza».
In che modo si può pensare sia penetrato il virus in Italia: quali «strade» ha percorso?
«È
verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione,
abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un
quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno
consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così
potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se
l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci
conto della sua situazione. D’altro canto in Francia un cittadino
britannico proveniente da Singapore ha infettato diverse persone pur
arrivando da una zona non considerata ad alto rischio».
Perché tutti questi casi proprio in Lombardia e in Veneto e non altrove?
«Probabilmente
perché Lombardia e Veneto sono le regioni in cui sono più intensi gli
scambi con la Cina per ragioni economiche e commerciale, e in cui c’è
inoltre un’importante presenza di cittadini cinesi. Non è detto che il
primo a portare il virus in Italia sia stato un cinese, potrebbe essere
stato anche un uomo d’affari italiano di ritorno da quel Paese».
Stupisce che
l’epidemia sia esplosa in una cittadina di provincia. Non era più logico
che accadesse da subito in una grande città, dove gli scambi sono più
numerosi?
«Tutto il territorio
intorno a Milano costituisce una grande area metropolitana, che vive in
modo simbiotico. Moltissimi sono coloro che si spostano da un capo
all’altro di questa zona. Un’epidemia come quella di Codogno sarebbe
stata possibile anche altrove. Possiamo sperare che, dopo quanto
accaduto, in qualsiasi Pronto soccorso d’Italia chiunque arrivi con
certi sintomi sia trattato con un’attenzione specifica».
Possiamo aspettarci che con l’arrivo della stagione calda i casi diminuiscano?
«Mi
auguro di sì ma per un virus nuovo non ci possono essere certezze. In
Cina, nel 2002-2003, la Sars è scomparsa verso giugno-luglio. È però
difficile dire se sia accaduto per l’arrivo del caldo, per la riduzione
delle aggregazioni in luoghi chiusi o per gli interventi messi in atto.
Anche le analogie con le epidemie influenzali sono possibili soltanto
fino a un certo punto perché alcune di esse non si sono attenute in modo
rigoroso all’andamento stagionale».
Perché si insiste tanto sull’importanza della diffusione di un test per gli anticorpi? Non basta la ricerca diretta del virus?
«Il
riscontro diretto del virus da un secreto corporeo è fondamentale per
identificare le persone che hanno l’agente patogeno in quel momento e
quindi possono diffonderlo e potrebbero aver bisogno di cure. La ricerca
degli anticorpi serve invece a dirci se si è già venuti in contatto con
il virus, ed è utile, per esempio, in casi come quelli dell’ipotetico
“paziente zero” di Codogno per stabilire se poteva essere davvero tale,
oppure per condurre studi epidemiologici a posteriori, che fanno capire
quante persone si sono infettate e non ce ne siamo accorti, oppure per
l’identificazione di ambiti di particolare rischio. Questo coronavirus è
nuovo e quindi il kit per la determinazione degli anticorpi non poteva
ovviamente essere trovato in commercio, il suo allestimento è stato
possibile grazie all’isolamento del virus».
Qual è la reale letalità di questa infezione. Si parlava all’inizio del 2%. È confermata?
«Per
adesso, se dobbiamo parlare in base ai dati relativi alla provincia di
Hubei, in Cina, la letalità è del 3,8%, lievemente salita rispetto
all’inizio perché tiene conto dei decessi avvenuti successivamente. La
letalità è più bassa se si considerano i casi fuori della Cina perché ci
sono stati meno morti. È comunque più alta fra gli
ultrasessantacinquenni, perché hanno un fisico meno idoneo a combattere
l’infezione».
Qual è il momento in cui un malato è più contagioso?
«Nella
Sars la massima diffusione del virus si verificava svariati giorni dopo
l’inizio dei sintomi respiratori. Speriamo che sia così anche per
questo virus, ci sono elementi che ce lo possono far supporre».
Che armi abbiamo contro Covid-19?
«Per
curare i malati abbiamo possibilità solo di tipo sperimentale in uso
“compassionevole”, cioè non all’interno di uno studio controllato, bensì
in utilizzo diretto per vedere se la cura funziona. In questo modo,
però avremo poche informazioni sull’efficacia o meno della terapia
perché se il decorso dovesse essere infausto non potremo dire in
assoluto che il farmaco non funziona, se invece fosse buono non potremmo
essere sicuri che sia per merito del farmaco. Allo stato attuale si
ragiona sul ricorso all’associazione Lopinavir/Ritonavir a lungo
utilizzato contro l’Hiv, però non abbiamo prove con studi in vivo che
funzioni davvero anche su questo coronavirus. Un’altra opzione presa in
considerazione è il Remdesivir. La prima soluzione è un inibitore delle
proteasi, agisce cioè verso un enzima che assembla le proteine virali,
una sorta di “sarto”. Il secondo farmaco agisce invece inserisce una
“tesserina” sbagliata nella catena dell’Rna del virus in modo che non
possa più replicarsi».
Ci sarà un vaccino? E se sì quando?
«Il
precedente dell’Hiv, per il quale stiamo ancora aspettando il vaccino
dovrebbe indurre a prudenza nelle previsioni. Tuttavia l’Hiv è un virus
molto diverso da questo coronavirus, che ha invece caratteristiche tali
da farci pensare che si potrebbe disporre di un vaccino in tempi non
lunghissimi. Vale la pena fare due annotazioni per comprendere però in
quale terreno ci si muove. La prima è che siamo ancora solo ai primi
passi sperimentali per il vaccino contro la Mers, che pure circola dal
2012 in una nazione ricca come l’Arabia Saudita. Una seconda
considerazione è che per la Sars l’interesse a realizzare un vaccino c’è
stato ma è subito scemato perché la malattia è sparita in fretta. Nel
caso di Covid -19 l’infezione sta interessando tutto il mondo e quindi
lo sforzo della ricerca è molto più robusto e diffuso. Va infine
ricordato che nella produzione di un vaccino entrano tante variabili che
rendono difficile fare previsioni. Sarebbe più facile realizzare un
vaccino per un virus pandemico influenzale perché le modalità di
produzione per quel tipo di vaccino sono ampiamente sperimentate.
Intanto sarebbe opportuno imparare a vaccinarci contro l’influenza. I
dati di adesione, anche fra gli ultrasessantacinquenni sono ancora
troppo bassi».
Che cosa fare ora, come comportarsi come singoli cittadini?
«Condurre la propria vita normalmente attendendo disposizioni da parte delle autorità preposte e rispettarle».
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