La politica ferma in una palude. Dove sguazza Matteo Renzi
Oggi della palude l’ex giovane principe fiorentino è il principale inquilino, ne conosce a memoria tutte le trappole, le sabbie mobili, i veleni. Al pari di quello che è diventato in questi giorni il suo principale antagonista, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La principale differenza tra i due è che per esistere l’ex premier deve fare movimento, deve inventarsi una terapia shock, una rivoluzione o almeno una minaccia ogni giorno, mentre il premier in carica immagina se stesso come immerso in una favola e Palazzo Chigi un castello incantato.
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cavillo. L’ex rottamatore e l’ex avvocato del popolo sembrano diversi,
invece sono appaiati dalla stessa condanna al trasformismo. Pronti a
tutto per agguantare il mitologico centro, dal medesimo cilindro Sono due prestigiatori, due illusionisti che si contendono lo stesso coniglio, come li raffigura Makkox in copertina, i due trasformisti, li racconta Susanna Turco, privi di un riferimento ideale o programmatico di qualche tipo. Senza il fallimento storico di Renzi non ci sarebbe stato Conte, senza l’immobilismo di Conte di questi mesi non ci sarebbe stato spazio per Renzi. Ma la crisi li supera e ha radici ben più antiche delle mediocri baruffe dell’ultima settimana, con il consueto contorno di saltimbanchi, voltagabbana, doppiogiochisti.
«Le svolte parlamentari precedono i passaggi sociali. Così è stato per il governo Dini nel 1995, che servì a portare l’Italia nell’euro, così è stato per il governo Monti nel 2011, che servì a evitare l’uscita dell’Italia dall’euro, così è successo con il governo Conte nell’estate 2019, che è servito a evitare che l’Italia con Salvini uscisse dalle sue tradizionali alleanze internazionali. In tutti questi casi, le novità sono partite da maggioranze parlamentari che non avevano dalla loro la maggioranza elettorale nel Paese. Mentre all’inizio della storia repubblicana la svolta politica dell’Assemblea Costituente aveva trovato il consenso della società italiana, dagli anni Novanta in poi questo non è più successo».
Considerazioni interessanti, rese ancora più preziose dal fatto che a esporle in pubblico è stato un ministro tra i più importanti del governo in carica, il titolare dell’Economia Roberto Gualtieri. Gualtieri, storico di professione, parlava da studioso nella sede più appropriata, il museo ebraico di Roma sotto la sinagoga costruita all’inizio del Novecento, in occasione della presentazione del libro di Umberto Gentiloni sulla storia dell’Italia contemporanea (pubblicato dal Mulino). E rifletteva sul perché il sistema politico fondato sui partiti nella sua fase iniziale riuscì a trovare il consenso popolare attorno a un doppio processo costituente, quello interno (la Costituzione antifascista e democratica) e quello internazionale (la doppia scelta del Patto atlantico e dell’Europa), mentre nell’ultimo quarto di secolo il miracolo non si è ripetuto e le classi dirigenti che hanno provato a dare vita a un nuovo doppio processo costituente – italiano e europeo – si sono poi ritrovate quasi sempre in minoranza nel Paese.
Le risposte più lontane nel tempo ci riportano all’Italia post-unitaria, il Paese dalla fragile unità nazionale della seconda metà dell’800, in cui il trasformismo parlamentare fu la strada individuata per governare in mezzo a mille divisioni sociali. La classe dirigente italiana provava a inseguire gli altri paesi europei sui livelli di istruzione, lavoro, infrastrutture. In questo contesto il trasformismo era considerato una equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno. Il termine, ha spiegato Giulio Bollati (“L’Italiano”, Einaudi), era «sinonimo di evoluzione», «la legge generale delle cose viventi», utilizzato per «connotare in senso scientifico-progressista la richiesta di “trasformare” i partiti eliminando la distinzione tra Destra e Sinistra: una maggioranza basata sulla solidarietà sostanziale di persone e di gruppi nel concreto dei programmi e degli interessi collegati».
Sappiamo com’è finita: indifferenza agli schieramenti, interessi di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo. «Per questa via», scriveva Bollati, «il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale».
Per quanto possa sembrare incredibile, centoquaranta anni dopo (in mezzo sono passati due conflitti mondiali, il regime fascista, la Resistenza e la Costituzione repubblicana, i partiti di massa, Tangentopoli, la più radicale trasformazione economica e sociale della nostra storia), quel modo di governare è tornato di moda. In questi giorni un autorevole esponente del Pd, Goffredo Bettini, il Grillo-Casaleggio di largo del Nazareno che detta al partito la linea senza incarico alcuno, dalla sua pagina facebook, ha consigliato a Nicola Zingaretti di scaricare Renzi dalla maggioranza e di fare pesca a strascico, shopping nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama: «C’è la possibilità di sostituire Italia Viva con parlamentari democratici (in quanto non sovranisti, illiberali e autoritari) pronti a collaborare con Conte fino alla fine della legislatura». Gruppi di responsabili vengono segnalati in movimento da Forza Italia in direzione di Conte. Sul fronte opposto, altri accorrono al carro di Renzi. In mezzo, c’è la dissoluzione del Movimento 5 Stelle.
Nessuna di queste giravolte richiede una spiegazione di qualche tipo, neppure il pericolo di una vittoria di Salvini, perché anche Salvini, come Renzi, per citare Bettini, è una tigre di carta. Lo scontro avviene proprio mentre la Lega attraversa la sua crisi più forte degli ultimi anni, con la concorrenza di Giorgia Meloni e l’ala di Giancarlo Giorgetti che comincia a non poterne più del partito fondato sui Borghi e sui Bagnai e sul Capitano al citofono. Ma certo, come nelle peggiori tradizioni, ci pensano i duellanti dell’illusione a dargli una mano.
Un formicaio impazzito su cui ora piomba, dal nulla, l’idea del sindaco d’Italia. Una proposta che nel merito non può fare paura a nessuno: spaventano semmai la superficialità e la spregiudicatezza con cui è stata lanciata nell’arena. Per Renzi Conte dovrebbe fare un patto del Nazareno due, dialogando con il capo dell’opposizione. Oppure un governo istituzionale, con tutti dentro. In entrambi i casi significherebbe rimettere in gioco Salvini. Ovvero il contrario di quanto si disse in estate: che la maggioranza Pd – M5S serviva a fermare il capo della Lega.
Tutto questo serve a dare una risposta alle domande poste dal ministro Gualtieri. Nell’Italia democratica eW repubblicana non si possono moltiplicare le maggioranze parlamentari senza radici sociali e senza consenso elettorale, altrimenti si produce puntualmente l’effetto che si voleva evitare, ovvero la vittoria della destra più feroce d’Europa.
Non può fare affidamento a lungo sulle manovre di Palazzo e sul soccorso dei responsabili per caso quel partito di sinistra che per dna costitutivo e per ragione sociale ha l’obbligo di stare dentro la società, le sue contraddizioni, le sue urgenze, che ha il dovere di combattere la sua battaglia nella realtà e non nelle astrazioni politiciste. Non lo può fare, in ogni caso, un partito che si chiama democratico.
Per questo, il Pd farebbe bene a bloccare la recita scadente, la crisetta strisciante Conte-Renzi, un governo senza meta. E prepararsi a riscrivere i suoi fondamentali: cultura politica, organizzazione, nuova classe dirigente. In fondo, l’unica vittoria portata a casa negli ultimi quattro anni è arrivata quando la sinistra ha accettato lo scontro con la destra a viso aperto, in Emilia Romagna, con i suoi uomini e donne e con un movimento di popolo alle spalle. Era una regione particolare e Salvini con le sue follie estremistiche ha aiutato, certo. Ma la paura non è una ragione sufficiente per abdicare alle proprie bandiere, seguendo questo o quell’altro illusionista nei suoi giochi di prestigio, che bloccano il Paese e spianano la strada alla destra.
L’ESPRESSO
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