Coronavirus, qualcuno parli a questo Paese
di CARLO VERDELLI
Qualcuno dovrà parlare al Paese, prima o poi. Qualcuno dovrà farlo perché la situazione che stiamo vivendo non ha precedenti, perché qualcosa di imprevedibile e angosciante ci ha infilati in un tunnel, emotivo prima ancora che sanitario, dentro il quale bisogna trovare presto un modo per convivere, per adattarsi al buio, in attesa dell’uscita.
Non si tratta di dispensare rassicurazioni o richiami alla razionalità in occasioni pubbliche o in interventi a pioggia dentro i molti programmi televisivi colonizzati dall’argomento. L’invito è più solenne: un messaggio a reti unificate, e siti, e radio, in cui il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio guardino in faccia gli occhi di milioni di italiani spaventati e, con sincerità, dicano loro il po’ di verità di cui dispongono e passino il messaggio che non c’è un colpevole da odiare ma un’emergenza comune
da affrontare, possibilmente ritrovando quel senso di comunità che questo Paese, anche nei giorni dell’infuriare del morbo, sembra scordarsi di avere avuto.
Il coronavirus, visto al microscopio, ha le sembianze innocue di una pallina da golf punteggiata sulla superficie da un certo numero di segnalini rossi, a fargli appunto corona. Non è mortale come la peste che nel milleseicento provocò un milione di morti, e neanche come l’Asiatica, che ne fece quasi un milione e mezzo.
Probabilmente ne uccide di più una normale influenza stagionale, di certo la polmonite (11 mila decessi l’anno), o l’alcolismo, gli incidenti stradali. E poi ha una percentuale di guarigione molto elevata, dicono gli esperti che molti ne escono senza neppure sapere di averlo contratto.
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