Restare a bordo per non affondare

Alessandro Sallusti

Era dall’indomani dell’11 settembre 2001 – attentato alle Torri Gemelle – che un presidente della Repubblica non appariva in tv a reti unificate per lanciare un messaggio agli italiani, e qualche cosa questo vorrà dire.

Davvero siamo in guerra? Sì, o quantomeno siamo come in guerra e dobbiamo prenderne atto. Siamo al punto, come documentiamo oggi, di ipotizzare chi salvare e chi no nel caso che il nemico Coronavirus sfondi anche le ultime difese ospedaliere e diventi impossibile salvare tutti. Speriamo non accada mai, ma il solo fatto che chi di dovere abbia dovuto ipotizzarlo mette i brividi. Non più first come, first served (chi primo arriva prima è servito), ma ceiling of care (un tetto alle cure), dice in un documento riservato fatto girare tra gli aderenti la società che raggruppa gli anestesisti e i rianimatori italiani.

Se non è questo un bollettino da stato di guerra, ditemi voi. Siamo pronti ad affrontare una evenienza del genere? No, penso di no. E mi vengono in mente le parole che il sociologo Umberto Galimberti rivolse alla platea degli industriali veneti pochi anni fa. «Mi dite che i vostri ragazzi non vogliono o non sono in grado di impegnarsi in azienda per prendere il vostro posto. Hanno ragione. La maggior parte di loro quando ha compiuto diciotto anni ha ricevuto in dono una Porsche, e quindi giustamente vanno in Porsche e se ne fregano di tutto il resto».

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