Coronavirus, smartworking obbligatorio per tutti ma ad 11 milioni di italiani manca la connessione

Oltre 11 milioni di cittadini esclusi

In Italia la banda larga ultraveloce raggiunge il 24% della popolazione, contro la media UE del 60%.Poi ci sono le «aree bianche», dove il piano da circa 1 miliardo di euro per estendere la fibra ottica a 9,6 milioni di unità immobiliari e in cui vivono 14,7 milioni di abitanti, risale al 2015. La gara fu vinta dalla società pubblica Open Fiber, che sbaragliò i concorrenti applicando un forte ribasso. Fra ricorsi, ritardi autorizzativi e grovigli burocratici i lavori sono partiti a fine 2018 con ultimazione prevista nel 2020. Ebbene, oggi gli immobili connessi in fibra ottica e wireless alla nuova rete a banda ultra larga sono 2,2 milioni, e peraltro la fibra si ferma a una distanza di 10/40 metri dalle abitazioni.

In pratica più di 11 milioni di residenti in quelle aree restano scoperti. Parliamo di zone montane, campagne, periferie, ma anche singoli quartieri di grandi città. Solo nelle tre regioni più colpite dall’emergenza, cioè Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, i comuni e le frazioni in cui non è possibile svolgere uno smartworking o telelavoro efficiente sono ben 2.349.

L’arretratezza culturale

Anche dove c’è una buona connessione, l’operatività è spesso ostacolata dall’ l’arretratezza tecnologica di molte aziende e da una mentalità poco aperta all’innovazione. Chi si oppone sono soprattutto i quadri intermedi che preferiscono avere i loro subordinati tutti fisicamente sotto controllo. Pochi (anche tra i capiazienda) capiscono che la vera rivoluzione non sta nel lavorare fuori ufficio ma nella produzione di risultati. Un’analisi del Politecnico di Milano mostra che la percentuale delle piccole e medie imprese che non hanno alcun interesse allo smartworking è passato nell’ultimo anno dal 38% al 51%. E oggi, con un’ emergenza arrivata tra capo e collo, sono costrette ad improvvisare: tutti in telelavoro a casa, mentre l’azienda si ritrova con la stessa organizzazione di prima e molti dipendenti che non sanno usare i programmi. Anche le pubbliche amministrazioni, che in base ad una legge del 2018 dovrebbero consentire il lavoro smart al 10% dei dipendenti, nella realtà iniziative strutturate sono state realizzate solo nel 16% dei dipartimenti. Pure qui si scontano resistenze dovute e ad un personale poco digitalizzato, oltre alle inefficienze organizzative. Pochi giorni fa, però, il coronavirus ha sbloccato tutto: una circolare della ministra Dadone ha consentito a tutti i dipendenti della Pa di lavorare da casa anche usando il proprio computer, purché non si aumentino i costi per gli uffici pubblici. Tutte le obiezioni poste negli ultimi anni (tutela dei dati aziendali, difficoltà tecnologiche) sono state superate in un colpo solo. Insomma la sperimentazione la stiamo facendo nelle condizioni peggiori possibili.

Come si muovono le grandi imprese.

Chi regge meglio sono le grandi imprese, che avevano iniziato da tempo ad organizzarsi. Ad attuare per prima un piano di smartworking allargato è stata Siemens nel 2011. A ruota sono arrivate le società delle telecomunicazioni, grandi banche, assicurazioni, utility, e anche le fabbriche più avanzate, perché le macchine possono essere programmate a distanza. Se guardiamo i numeri vediamo che Siemens aveva già 3.300 dipendenti in smartworking, e oggi non ha dovuto modificare il suo piano. L’Eni ne aveva 4.500 in modalità smart, in emergenza se ne sono aggiunti altri 11.000. Segue la Regione Emilia Romagna e Liguria, la multiutility Iren, Cnh Industrial e tante altre che nel giro di pochi giorni, e senza troppe difficoltà, hanno potuto continuare l’attività con il lavoro agile.

Vantaggi dello smartworking

Il lavoro agile è meritocratico: sei valutato in base ai risultati che porti e non per il tempo che passi alla scrivania. Ci guadagna l’ambiente perché meno traffico vuol dire meno inquinamento. Ci guadagnano le aziende: riducono gli spazi, pagano affitti più bassi e bollette della luce più leggere, e hanno una produttività del lavoro più alta. Uno studio della Bocconi appena pubblicato ha messo a confronto due gruppi di lavoratori uguali. Ne è risultato che i lavoratori in smartworking, su 9 mesi di sperimentazione, hanno fatto 6 giorni in meno di assenze, il rispetto delle scadenze è aumentato del 4,5% e l’efficenza del 5%.

Per i dipendenti ci sono i vantaggi che derivano dalla libertà di organizzarsi: posso staccare per andare a prendere i figli a scuola, si libera il tempo per andare e tornare dall’ufficio (dai 30 minuti alle 2 ore ogni giorno). Secondo un’indagine del Politecnico di Milano, il 76% degli smartworker è soddisfatto del proprio lavoro, contro il 55% degli altri dipendenti. In conclusione, lo smartworking non è né buono né cattivo, dipende da come contratti la mole di lavoro da sbrigare. Una legge che stabilisce alcuni principi di base, come il diritto alla parità retributiva e alla disconnessione, esiste dal 2017. Quello che stiamo facendo oggi è un telelavoro in emergenza, e non è un’opzione ma un obbligo, e serve per tenere in piedi il Paese. Quando finirà l’incubo coronavirus e sarà ripristinata la normalità, sarà necessario negoziare questa modalità a livello individuale, aziendale e nei contratti collettivi. Senza fare differenze di sesso e condizione familiare.

CORRIERE.IT

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