L’autoassoluzione

A fronte di questo, scaricare tutto sulla presunta indisciplina degli italiani che vanno a correre in gruppo o gozzovigliano in autogrill suona come una gigantesca autoassoluzione, che lascia ognuno nella solitudine del proprio sgomento. E pone una collettività angosciata, nel momento più cupo della sua vicenda umana e collettiva, nell’incertezza. In Italia si muore più che in ogni parte al mondo, senza che si capisca ancora il perché.

Proprio oggi Macron, di fronte ai dati di giornata, ai francesi ha detto “siamo solo all’inizio”, dando cioè la consapevolezza, non consolatoria, che il cammino sarà duro e difficile. In Italia, a quasi due settimane dalle misure prese, nessuno si assume l’onere di spiegare, con mente fredda e cuore caldo, se questa evoluzione è comunque attesa e bisogna mettere nel conto numeri impressionanti o se, all’interno di un impianto di risposta giusto, qualcosa non ha funzionato, mentre imperversa in tv la discussione tra i fautori del “modello Cina” e quelli del “modello Corea”, con tamponi a tappeto. O di entrambi. Il cosiddetto “modello Italia” di lockdown, che tale non è, non sta producendo risultati, ma al contempo non si comprende, in questa affannosa corsa a tentativi per guadagnare tempo, quali siano le altre contromisure messe in campo, in un quadro in cui, come evidente, si è anche incrinato il coordinamento istituzionale con le Regioni.

Ecco, la stretta sul jogging. È questa la risposta al drammatico appello di Giorgio Gori, che ha raccontato come ormai la gente muore in casa come zanzare, al grido di dolore di Fontana, che chiede la chiusura totale perché si è raggiunto il punto limite negli ospedali, a quello di Bonaccini o a Zaia che, motu proprio, si è assunto l’onere di varare misure più severe. Parliamoci chiaro: il 43 per cento dei lombardi che, secondo i dati del Viminale esce ancora di casa, non è un esercito di maratoneti, ma in buona parte cittadini che continuano ad andare a lavorare, nelle fabbriche, nelle aziende o nel pubblico impiego, attività che continuano a rimanere aperte.

Sappiamo che, non da oggi, nel Governo ci sono due linee: il ministro della Salute, da tempo, spinge per un lockdown totale, perché non si è mai visto un lazzaretto dove si misura il Pil; il premier è più cauto, in quanto preoccupato dall’impatto sulla tenuta psicologica degli italiani. Perché, certo, è impensabile che, in un momento come questo, possa temere per il suo consenso di fronte a misure impopolari che possano rompere la sua narrazione del “torneremo presto ad abbracciarci”. È un dibattito che finora ha prodotto un incerto inseguimento degli eventi, nella speranza che questo inseguimento a un certo punto non risulti impossibile. E ha prodotto esattamente ciò che, in queste situazioni, andrebbe evitato: non un’unica catena di comando, fatta di regole certe e rispettate da tutti, ma un’agorà polidecisionale, tra Governo e Regioni.

Ciò che accadrà nei prossimi giorni è già prevedibile, con le Regioni che, a un certo punto, decideranno di “fare da sé” e il Governo che, non potendo impugnare le decisioni di fronte al numero crescente dei morti, seguirà. Come ha fatto con il primo parziale lockdown e poi con la chiusura dei parchi, già disposta autonomamente da diversi amministratori. Una sorta di modello Wuhan fatto a tappe e, soprattutto, per successive approssimazioni fuori tempo. È vero che la gestione delle crisi più estreme – è sempre accaduto e accade così in tutto il mondo – è un work in progress, fatto di strategie duttili e di adeguamenti continui, tuttavia siamo di fronte non a questo, ma a un cortocircuito decisionale. Il che, in una situazione normale, è accettabile. In una situazione estrema è pericoloso, perché rischia di produrre anche lacerazioni nel tessuto profondo del paese

L’HUFFPOST

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