Il virus non si è fermato a Eboli
di Susanna Turco
A Roccapipirozzi – una parola sola – provincia di
Isernia, unica frazione di Sesto Campano, comune dove il Molise ha
contato il primo dei suoi morti da virus, di mettersi a cantare sul
balcone non se lo sognano proprio. Né alle 18, né a qualsiasi altra ora
del giorno: «Io tengo chiuse pure le finestre», dice una signora
all’altra, mentre però sono uscite a parlarsi, sotto i merli della rocca
angioina. Pure a Eboli, centottanta chilometri più in
là, mentre una nebbiolina incongrua si stende poetica sulla piana del
Sele in provincia di Salerno, invece che il previsto Inno di Mameli, è
una lunga jeep grigia e rossa con gli altoparlanti a riempire l’aria.
L’auto ha le luci intermittenti, prega di restare in casa: ma in effetti
più che pregare afferma, impartisce, ordina. Sembra uscita da un
telefilm americano in onda controvoglia tra i marciapiede vuoti. Procede
lentamente per strada, forma una coda, una processione di automobili:
la crea soprattutto perché dalla parte opposta, verso la rotonda –
l’hanno visto tutti – c’è un posto di blocco: e così da quella parte non
ci va nessuno. Meglio la lentezza degli altoparlanti che l’incerto di
un controllo.
Giovedì 12 marzo, primo giorno del blocco totale deciso dal governo, dei quarantamila abitanti che risultano all’anagrafe nella città che deve la sua notorietà a una finzione letteraria, per le strade del centro ne saranno venti, trenta. Posti di controllo quattro, volanti in giro tre. Bambini e ragazzi nessuno. Un mondo distopico, fatto di trenta-sessantenni e forze dell’ordine, impauriti gli uni e gli altri.
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