Il virus non si è fermato a Eboli
Su corso Matteo Ripa, una signora si accosta al bancomat delle poste: dall’altro lato della strada, il figlio che l’ha accompagnata la osserva da dentro l’auto con trepidazione degna di una rapina in banca, pronto a filare via. Neanche l’edicolante vicino ha voglia di parlare: «La resa dei giornali l’ho già fatta, ora chiudo, sono quasi le sei». Non è detto che qualcuno o qualcosa abbia imposto la saracinesca proprio a quell’ora: viene da sé, spontaneismo anarchico. L’incertezza non va sfidata. La si può al massimo cavalcare, a seconda del momento, verso l’eccesso o verso il difetto: ma occhio a strafare.
Coronavirus, viaggio nel sud che attende l’arrivo dello tsunami
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Anche a Campobasso o a Termoli, fino all’ultimo, i bar
hanno chiuso un po’ prima del dovuto. Non strettamente per rispetto
delle regole, piuttosto per un miscuglio di approssimazione e
sentimento. E infatti, adesso, anche i luoghi di ristoro che pure
potrebbero restare aperti lungo strade e autostrade, spengono prima del
dovuto. Oppure restano chiusi – per direttiva regionale o per impulso.
Col sublime risultato, per chiunque si sposti per lavoro, che un bagno
pubblico letteralmente non c’è, nel raggio di decine e decine di
chilometri. Ovvia la soluzione tacita, paradossale quella più suggerita:
«Andate in ospedale». Del resto, è quello il luogo più aperto e
frequentato di quest’era maledetta.
Il sud che si prepara ad affrontare l’onda del virus, lo tsunami che sta
per investirlo senza ancora sapere fino a che punto, con quante
tragedie, e quali, e dove esattamente di più o di meno, se ne sta come
sospeso dentro la selva in cui si accavallano paura, decreti, ansia,
ordinanze, ospedali, prescrizioni, raccomandazioni, multe e
trasgressioni. Mentre i suoi governanti invocano eserciti, sollecitano
l’invio dei ventilatori polmonari e contano i posti in rianimazione.
Cristo si è fermato ad Eboli, il contagio no, lo Stato è abbastanza
ugualmente lontanissimo, incomprensibile, imprescrutabile. E il Covid 19
invisibile, ma inflessibile.
«Sinnaco, ma ru sta stu cazz di virùs?». Sindaco, ma
dove sta il virus? Gliel’ha chiesto un ragazzo del Rione Libertà,
periferia di Benevento, a Clemente Mastella, il sindaco appunto, che gli
aveva appena fatto interrompere la partita a calcio in un campetto,
unico svago, in quanto contraria alle ordinanze emanate dal Comune,
dalla Regione, dallo Stato. Già, perché poi il virus non si vede, e fa
parte anche quello del paradosso inverso, il flagello che per una volta
ha colpito prima il Nord, circostanza talmente singolare che qui non
sanno proprio come interpretare. Neanche da queste parti, dove pure
all’inafferrabilità delle cose del mondo sono abituati come al fatto che
le statue dei santi nelle chiese abbiano vestiti di stoffa pregiata,
assai più della loro.
In viaggio nelle retrovie, per il Sud non da cartolina, non da prima
pagina, lontano dalle grandi città, in duemila chilometri tra Molise,
Campania, Puglia e Basilicata – che poi a proposito della logica che ci
governa sono pure i luoghi d’origine di mezzo esecutivo, dal premier
pugliese Giuseppe Conte al potentino ministro della Salute Roberto
Speranza, fino al titolare degli Esteri Luigi Di Maio cresciuto a
Pomigliano D’Arco, ai confini della Terra dei fuochi – in questo pezzo
di Meridione che si preapara alla sfida con l’ennesima spada di Damocle
più grande di lui, trovi dappertutto quel meccanismo già descritto
persino nei libri: gente che a fronte dell’incomprensibile si difende
con la rassegnazione.
La rassegnazione silente, spaventata magari ma cocciuta, col sottotesto
ribelle – da brigantaggio, potenzialmente – di chi consegna le mani, ma
non la testa, al nemico invisibile che impone mascherine, guanti,
quarantene. In un fiorire di incongruità che sarà poi la chiave cui
aggrapparsi, per ricostruire questa storia.
A Isernia, per dire, c’è contemporaneamente chi si fa
multare perché va per campi a raccogliere gli asparagi selvatici, mentre
in centro, di fronte alla Cattedrale, la barista ha esibito la più
sicura delle mascherine fino all’ultimo giorno dietro il bancone: «Ma io
l’ho comprata quando ho sentito parlare per la prima volta del virus in
Cina. Ho fatto come dice mia suocera: se vedi una casa che brucia,
porta subito l’acqua a casa tua». Distillati da emergenza perenne, da
intercertezza territoriale, esistenziale: che non è la stessa nei posti
poveri e nei posti ricchi. Altro che livella. «I miei cugini a Napoli
girano con la sciarpa sulla faccia, dice che va bene uguale», racconta
un tipo al centro di Venafro, accanto al Rivenditore di Sali e Tabacchi
sbarrato. Va bene uguale, la sciarpa: si sa che non è così, ma non è
quello il punto, in una città che si è vista chiudere due anni fa
l’ospedale, il Santissimo Rosario, e che adesso raccoglie firme, a
centinaia, per riaprirlo – sapendo che se non accade ora non sarà mai
più. «Il governo ha fatto i suoi interventi, e va bene, ma lo sappiamo
tutti che è tardi», dice Alessandro, tre orecchini e un tatuaggio per
mano, che ha tenuto aperto il bar finché ha potuto: «Ora possiamo solo
sperare». “Fremmete”, dice l’insegna. «Fermati». Sembra un auspicio.
Lungo i cento chilometri in provincia di Foggia che
portano da Volturara Appula a San Giovanni Rotondo, dal paesino devoto
alla Madonna della Sanità dove è nato il presidente del Consiglio, fino
al luogo dove invece è cresciuto e dove vivono i suoi genitori, avvolto
nella devozione a San Pio, si stende praticamente un West.
Distese di campi verdi di grano attraversati da auto in cui il guidatore
ha la mascherina e il passeggero no, oppure viceversa. Negozi di
alimentari dove tutti fanno la fila con le distanze, immobili per delle
mezze ore come in un presepe, poi entrano contingentati e infine,
usciti, tornano a raggrupparsi dimentichi di tutto. Tabaccai che hanno
un guanto solo, passanti che tengono la mascherina sopra la fronte, come
un diadema. Puttane sul ciglio della strada. Fino all’apoteosi: il
distributore di benzina lungo la Statale 17, con bar a infissi di
alluminio rossi, Lucera all’orizzonte. «Noi crediamo nel destino», dice
Gianni, maglietta rossa e al collo fazzoletto nero coi teschi. Al
distributore, siccome al destino ci credono, impediscono l’uso del
bancomat: c’è Gianni che fa la cortesia di inserire i contanti, poi c’è
il ragazzo che mette benzina. Poi ci si mette in processione, con il
benzinaio e Gianni, si entra nel bar dove uno dei tre dietro al bancone
(l’unico con la mascherina) estrae finalmente il pos. Il destino. Diviso
per sei.
A San Giovanni Rotondo, la conca del santuario firmato
da Renzo Piano è deserta, pure trovare la teca in cui è esposto San Pio è
un’impresa. La cercano a passi appaiati due fratelli. Sardi di Sassari,
vestiti con gli scarponcini Timberland, gli stessi jeans, sono qua da
giorni perché il padre è chiuso all’ospedale, in rianimazione, problemi
al cuore. Nella Casa sollievo della sofferenza sono, però, in emergenza –
a decine gli infermieri in quarantena – nel reparto non li fanno
entrare: così loro, fuori, cercano Padre Pio, il santo delle guarigioni
inaspettate, per fotografarlo immascherinati a dovere, quasi alieni, in
zone dove i sindaci si sgolano per spiegare cosa non fare. A volte senza
nemmeno saperlo bene nemmeno loro. «Il virus si spande così», è la
puntigliosa spiegazione di Claudio Grillo sindaco di Afragola. A Lucera,
Foggia, è diventato virale il video del primo cittadino che in dialetto
chiarisce di non rinchiudersi nei garage a giocare a tressette, perché
poi nell’aldilà le carte non ci sono. A Boscoreale, Benevento, quello di
Giuseppe Balzano che spiega le misure contro il «corona-ro-virus» e la
potenziale crescita dei «sieropositivi».
Là vicino, sul monte Cila, continuano comunque gli incendi dolosi. Mentre più giù, in Basilicata, la terra dove Cristo non è mai arrivato, nella piazza principale di Potenza, di fronte al Teatro Stabile, l’unico rumore di vita è quello del motore di scongelamento della pista di pattinaggio sul ghiaccio: ha resistito fino all’ultimo, ci sono ancora i cartelli che intimano di conservare (non si sa come) la distanza di un metro dagli altri, pattinando. Ma fino all’altro giorno, alle pendici della città, nel parco fluviale del Basento, il sindaco Guarente ha dovuto far intervenire le forze dell’ordine, per disperdere gli assembramenti di passeggiatori accaniti.
Ecco, sono forse rimasti i sindaci, quando gli riesce, l’unico avamposto di comprensibilità, prima del salto nel burrone. Una metamorfosi che arriva a riguardare anche i governatori, quelli con la vocazione al pugno di ferro e soprattutto quelli che hanno fatto i sindaci, come Vincenzo De Luca o Michele Emiliano. La cosiddetta «distanza sociale» che si sta cercando di imporre tra le persone, e che in questo sud tende a slittare nel controllo sociale. Può essere una questione di rapporti personali, per cui in strada a Termoli puoi sentire dire: «Giovanni io te lo dico: fai la cortesia, vattene a casa. C’hai un’età, t’ho visto in giro tutta la mattina, e anche ieri sera. Un favore personale, non uscire». O slittare in una specie di paternalismo istituzionale. Esempio: «Uno per panchina, non di più», oppure «a fare la spesa massimo in due», alcuni dei principi-base diramati da Mastella, il sindaco che su facebook ha pubblicato il suo cellulare con la raccomandazione «chiamatemi per qualsiasi cosa» e da casa ha messo su una specie multiservizi unipersonale, che evade le richieste: lo speciale latte in polvere, i controlli da mandare all’azienda, le proteste da sedare. «No, scusi, non è vero che tutti i comuni hanno distribuito mascherine: hanno detto di metterle»; «Signora, fate il piacere, riempite il foglio, lo dovete fare voi, si chiama auto certificazione perché “auto” significa che ciascuno lo fa da sé», e via così. Non si capisce affatto dove porterà tutto questo, quando l’emergenza sarà passata. Ora è il momento di prepararsi, come quando è annunciato un tifone: «Poi alla fine magari devia, o forse no, ci prende in pieno. Nessuno lo sa».
Intanto, anche nella terra dei fuochi girano con le mascherine. A Pomigliano d’Arco, al tabaccaio vicino a casa Di Maio, si fa la fila doppia: di qua le sigarette, di là lotto e gratta e vinci. Fenomeno: chi vuol prolungare la parentesi d’aria, fa passare avanti gli altri. La gentilezza dilaga. Sembrerebbe una Svizzera se non fosse per i muri che cascano a pezzi. Ad Acerra sfrecciano come sempre i motorini: in due, senza casco, ma con la mascherina. Appena lontano dalle case, il termovalorizzatore continua senza sosta a ingoiare rifiuti: c’è la fila dei camion in attesa, come un giorno qualunque. Accanto crescono i cavoli e le verze, tra i peschi in fiore, indisturbati.
L’ESPRESSO
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