Coronavirus, gli errori da evitare sul «dopo»
Ci sono due strade possibili. Una è quella di procedere, quando sarà il momento, per settori o per fasce di età. Prima i giovani e le donne, più resistenti al virus, con gli anziani a casa. Oppure prima le fabbriche, poi le scuole. Ma lo sviluppo che l’epidemia ha avuto in Italia sembra suggerire un’altra possibile soluzione, quella geografica: riaprire per aree, rilassando le norme innanzitutto in quelle che si sono dimostrate più resistenti alla diffusione del virus (al momento sembra aver tenuto meglio il centro-sud, ma serve ancora tempo per esserne certi) tenendo invece le maglie più strette e più a lungo nelle zone in cui la circolazione è stata capillare o addirittura incontrollata. È ormai abbastanza chiaro che non aver «chiuso» subito alcune zone del Bergamasco e del Bresciano, come si era invece fatto con Codogno e Vo’ Euganeo, sia stato un tragico errore. Non rifacciamolo al contrario.
Non alternativo, ma complementare a quello geografico, c’è il metodo tecnologico. Nelle zone in cui si riparte, cioè, si possono usare sia metodologie di test più ampli, con tamponi al primo sintomo sospetto, sia di tracciamento informatico, utilizzando una o più delle centinaia di sistemi e di app che sono stati proposti al governo. In questo modo i «positivi» verrebbero individuati prima di quanto non sia stato fatto finora, e li si potrebbe dunque fermare prima che facciano ripartire il contagio.
Discutere i due metodi possibili, quello geografico e quello tecnologico, e il possibile mix tra di loro, è necessario anche perché entrambi comportano scelte delicate e onerose, sia dal punto di vista industriale e produttivo, sia dal punto di vista della privacy e dell’uso dei big data. L’opinione pubblica ha dunque il diritto di essere informata e, nei limiti del possibile, coinvolta in questo dibattito.
Ma il tempo che ci divide dal momento fatidico in cui potremo dire che si ricomincia seppur parzialmente a vivere deve essere usato anche per risolvere un altro grande problema, che fin dall’inizio della crisi ha ridotto la nostra capacità di reazione: la catena di comando.
L’incertezza su chi dovesse decidere, specialmente in un campo come la sanità che costituzionalmente compete alle Regioni, ha determinato a detta di molti esperti una decina di giorni di ritardo nel lockdown, che stiamo ancora pagando. L’accavallarsi di gare e corse all’approvvigionamento, tra Consip, Regioni, Protezione Civile e da ultimo Commissario, non pare d’altro canto aver risolto il problema della carenza di mascherine e ventilatori, finora il vero tallone d’Achille nella gestione dell’emergenza. Il differente approccio tra le Regioni che hanno privilegiato una risposta basata sulla centralità dell’ospedale e quelle che hanno invece fatto più leva sulla medicina territoriale potrebbe d’altro canto spiegare le apparenti differenze nei tassi di letalità del virus.
Tutte queste incertezze non possono e non debbono ripetersi anche nella fase di rientro dall’emergenza, altrettanto e forse più delicata. Queste settimane, speriamo poche, che ci separano dall’ora X vanno usate anche a questo fine.
CORRIERE.IT
Pages: 1 2