Tra gli errori commessi e i pericoli che ci attendono
Bene ha fatto perciò il presidente del Consiglio a esortare gli italiani a tener duro fino a dopo Pasqua, lasciando intendere che poi molto probabilmente, a metà aprile, saremo costretti ad allungare il lockdown fino ai primi di maggio. Nei trenta giorni che ci separano da quella data sarebbe saggio studiare in dettaglio nuovi modi per rimettere in moto la macchina produttiva. Nella consapevolezza però che, come insegna l’esperienza Inps, la realizzazione dei progetti – di cui si discute, non senza qualche faciloneria, in tv (o sui giornali) – non è garantita. Tutti siamo ormai capaci di suggerire mappature di massa, metodi coreani, sostituzione di adulti con giovani, di uomini con donne, salvo poi scoprire che l’Italia, a oltre due mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza, è ancora alle prese con il caos delle mascherine.
È dunque utile progettare fin d’ora e dettagliatamente quel che dovremo fare quando usciremo dall’emergenza, ma è ingannevole prospettare che sia sufficiente volerci tirar fuori dall’attuale stato di cose per poterlo fare. Come se poi il non riuscirci fosse riconducibile alla pigrizia di governanti opportunisti, indecisi o eccessivamente prudenti. Riaprire per essere poi costretti, dopo qualche settimana o mese, a richiudere, oltreché dannoso, darebbe l’immagine di una classe dirigente inaffidabile. Anche nella sua componente scientifica.
Quanto al recente passato, è evidente che è stata proclamata troppo tardi la chiusura totale: molti non avevano calcolato quel che sarebbe potuto accadere e che poi è accaduto. Un errore grave ma quasi trascurabile se messo a confronto con quello degli altri Paesi europei e occidentali (a cominciare dagli Stati Uniti) i quali, pur avendo davanti agli occhi quel che stava succedendo in Italia, hanno continuato a minimizzare lasciando che il contagio si diffondesse e provocasse più morti del necessario. Molti di più. Troppi.
Ciò detto, lasciamo la polemica contro le istituzioni europee a chi ne fa una questione di identità e non sentirà ragione, neanche a dispetto di molte evidenze. Prima tra tutte: la Gran Bretagna, che ha lasciato la Ue, è lì a mostrarci come questa decisione non abbia influito, al momento della verità, sul modo di affrontare il contagio. Nessuna opportunità è venuta al Regno Unito dall’esser fuori dall’Europa. Ciò che dimostra come non sia questo il tema da mettere oggi all’ordine del giorno. Ma anche coloro che sono decisi restare, più o meno saldamente, in Europa dovrebbero avere un modo più composto nel trattare con i Paesi dell’area settentrionale del continente, Germania in primis. Le ragioni sono per lo più dalla parte di Francia, Italia e Spagna, ma è davvero sconsiderato mettere in campo l’idea che Berlino avrebbe nei nostri confronti dei «doveri di solidarietà» e dovrebbe esserci grata perché negli anni Cinquanta non imponemmo al Paese che era stato di Hitler la riparazione dei danni di guerra. Questo discorso potevano farlo i greci – peraltro inutilmente, a scopo evidentemente propagandistico – nel 2015. Perché i greci settantacinque anni prima erano stati aggrediti (dall’Italia di Mussolini, tra l’altro). Ma non se lo può permettere l’Italia che nel 1940 affiancò la Germania hitleriana nell’aggressione all’Europa. E, più in generale, non si può ogni volta che si hanno pur giustificate rimostranze nei confronti della Germania accusarla di essere rimasta o tornata ai tempi del Terzo Reich. Non si può perché questo non è vero.
La solidarietà che giustificatamente chiediamo ai tedeschi (e agli olandesi) dobbiamo saperla ricambiare con un atteggiamento più rispettoso nei confronti del dibattito interno di quei Paesi, peraltro più articolato del nostro. La richiesta di solidarietà dovrebbe poi andare al passo con il senso di responsabilità. Talché quando chiediamo di poter disporre delle risorse necessarie ad affrontare l’attuale crisi, dovremmo preoccuparci di dimostrare – in primo luogo a noi stessi – che i soldi ottenuti li spenderemo in modo avveduto. Se poi quegli euro serviranno per consentire di sopravvivere anche ai cosiddetti «lavoratori in nero» – come è doveroso che sia; sottolineiamo: doveroso – dovremmo altresì ricordare che l’impegno a venire a capo del gigantesco problema dell’evasione fiscale non può essere lasciato alle ore in cui si forma un governo quando si vuol portare qualche generica copertura alle voci di spesa. E dovremmo preoccuparci fin d’ora che quelle somme non finiscano neanche in parte nelle mani della malavita. La richiesta di solidarietà non può essere disgiunta dal senso di responsabilità. Neanche in circostanze straordinariamente drammatiche come quella attuale.
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