Coronavirus, Crisanti: «Mascherine anche in casa. Riaperture? Ultima la Lombardia, prima la Sardegna»



Professor Crisanti, dopo settimane di chiusura le mascherine in casa potrebbero sembrare inutili. Viene da pensare che se non si è stati ancora contagiati il pericolo è scampato.
«No, non è così. I casi si sono accumulati. Le persone non si ammalano tutte nello stesso momento. Noi vediamo una progressione. In ospedale arrivano a grappoli, interi nuclei familiari. Questo significa che se non si sta attenti le nostre case possono trasformarsi in tanti piccoli focolai di contagio. Diciamo che in questo momento sono più protetti i single. Sarebbe comunque opportuno accompagnare la misura con un’opera seria di informazione. Non è cosa semplice difendersi da un’infezione».

Al di là di guanti e mascherine, come se ne esce?
«Ci vuole un’azione decisa. Sarebbe utile andare nelle abitazioni a fare i tamponi quantomeno a tutte le persone che hanno accusato sintomi non gravi. Controllare poi i familiari e chi è entrato in contatto con i soggetti contagiati. Non solo. Sarebbe molto utile trasferire tutti i positivi in strutture ad hoc. Naturalmente parlo delle persone che non richiedono un ricovero ospedaliero».

Quali potrebbero essere queste strutture?
«Penso per esempio agli hotel rimasti vuoti. Di alberghi ce ne sono tantissimi e sono pure confortevoli. I malati rimarrebbero comunque in contatto con le famiglie. Una decisione in questo senso tocca però il livello politico perché richiede investimenti. Ne stiamo comunque discutendo. Si potrebbe procedere con due tre casi pilota nelle aree a maggior densità alberghiera, tipo Venezia, Padova, l’area termale…».

Non c’è il rischio di creare dei lazzaretti?
«Assolutamente no, non in senso negativo almeno. Sarebbero sistemazioni più che dignitose, in attesa della guarigione. Questa è un’emergenza sanitaria e va combattuta anche con le armi della scienza, dell’epidemiologia. Il lazzaretto, il ghetto e i muri rappresentano quanto di più distante c’è dal mio mondo ideale. Ma qui i muri servono a salvare. Qui per tornare a essere liberi e uniti bisogna per forza separarsi. E la fonte di contagio in famiglia è importante, anche più delle altre due: gli indisciplinati che escono, una minoranza, e chi è costretto a lavorare».

Quand’è che potremmo vedere i primi sospirati risultati?
«Gli indicatori ci dicono che finalmente qualcosa di buono sta già succedendo, anche se i morti sono ancora molti. Sono fiducioso».

Ci aspettano altre settimane di blocco totale. Come sarà il ritorno al lavoro?
«Bisogna definire un rischio accettabile perché lo zero non esiste. Naturalmente la tempistica sarà dettata dalla politica. Io posso solo dire cosa converrebbe fare dal punto di vista sanitario».

Cosa converrebbe?
«Fare tamponi e test sierologici su larga scala in modo da evitare l’introduzione in azienda di dipendenti infetti. In caso di ripartenza del contagio, bisognerà spegnere immediatamente il focolaio. Sarebbe opportuna poi una gradualità territoriale».

Cioè?
«Riaprirei prima le aree dove il rischio di trasmissione del virus è più basso, tipo Sardegna, province come Cagliari, Oristano. E terrei per ultima la Lombardia, Bergamo in particolare. Ma bisogna essere veloci e tempestivi. Perché mi sento di dire che il male peggiore nella lotta al coronavirus è stata lei: la burocrazia. Si poteva fare tanto e subito».

CORRIERE.IT


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