“State zitti che è meglio”. Intervista a Paolo Crepet

Perché?

Fino ad oggi non avevamo conosciuto la nostra abitazione. L’abbiamo sì comprata, ma non l’abbiamo vissuta. Prima del Covid-19 la famiglia era composta da persone che si alzavano e si recavano negli uffici, in azienda. I bambini dovevano seguire una road map rigida: scuola, lezione di musica, sport, reunion a casa dei compagnetti.

E ora?

Adesso stiamo vivendo una sperimentazione di massa della famiglia al suo completo all’interno di quattro mura domestiche. Senza alcuna valvola di sfogo.

La frustrazione di stare chiusi in casa si sta già trasformando in rabbia?

Assolutamente sì. Naturalmente la rabbia ha tante facce, io non sto pensando che ci saranno delle mattanze dentro le famiglie italiane. C’è un grande disagio delle famiglie che si trovano il peso dei bambini, delle coppie che non erano abituate a frequentarsi. Senza dimenticare che non c’è poi la possibilità di farsi una passeggiata. Tutto questo non aiuta psicologicamente. Come mai a Parigi hanno dato un chilometro di raggio per passeggiare? Mica sono scemi loro e furbi noi. Hanno semplicemente capito che un chilometro rappresenta la possibilità di fare due passi in libertà per i fatti propri.

Perché è una situazione così sconfortante da sopportare?

C’è un’angoscia rispetto al fatto che forse qualcuno ci si aspettava un andamento epidemiologico positivo. E invece non siamo arrivati al famoso plateau. In secondo luogo il Covid-19 si è allargato al mondo intero, la Svezia c’ha ripensato, l’America è impazzita. Uno potrebbe dire: cosa mi interessa dell’America? No, lo stato dell’arte degli Usa contribuisce a una sensazione di globalizzazione che ci riempie d’angoscia perché capiamo che la fine sarà solo quando il mondo se ne sarà liberato. E poi diciamola tutta: non ci sentiamo rassicurati da chi ci governa. Pensare di tranquillizzare perché ti danno 600 euro all’Inps è trattarci da imbecilli. Io voglio sapere che fai tu del Paese. Quando mi dicono: cosa cambierà? Rispondo: non cambierà nulla. C’è il coraggio per cambiare? Il tutto senza dimenticare un altro aspetto.

Quale?

Legato al futuro e al futuro del lavoro. Uno sta in casa, in più con l’idea che il bar non si sa quando aprirà, la pizzeria non sa se e quando alzerà o meno la saracinesca, e poi l’estate, il sogno di tutti, me la sono giocata, o no? Questo è un altro elemento psicologico enorme. La paura dilata i problemi non li restringe. Ci vogliono messaggi chiari da parte del governo. Non possiamo dare quaranta deadline due volte al giorno: una volta la riapertura dovrebbe essere a Pasqua, poi dopo Pasqua, e poi ancora dopo il 1 maggio. Stiamo zitti che è meglio. La verità è: nessuno può realisticamente dire cosa accadrà.

Ecco, se lei la mette così, chi si salverà quando finirà tutto quanto?

Si salva chi continua a pensare, a farsi un progetto. Visto che non ti puoi muovere, almeno muovi il tuo cervello.

In questa emergenza i bambini hanno perso molto: la dimensione sociale, la scuola, il contatto con gli amici. Che cosa è stato fatto per loro?

A me scrivono tutti i giorni che nessuno parla dei bambini. Perché non basta mettere una maestra online. Dobbiamo inventarci qualcosa.

Cosa?

Ad esempio si potrebbe pensare a piccolissimi gruppi distanziati all’aria aperta e non in aula guidati da una maestra o da un docente di educazione fisica. Ovviamente tutti muniti di mascherina. Credo che questa cosa sia compatibile con l’attuale protocollo. Anche perché si tiene conto del virus, ma non del virus psicologico. Certo il nonno muore, ma il ragazzino va fuori di testa.

Quali sono le conseguenze su chi stava iniziando un percorso di alfabetizzazione?

Sono gravi. La scuola non è importante solo perché impari a leggere e a scrivere, ma anche perché stai in gruppo. E’ un luogo di socializzazione. Dobbiamo anche sapere che c’è un altra emergenza che non è virale, ma è l’interruzione prolungata di qualsiasi livello di socializzazione, a favore di una comunicazione virtuale che anche quella farà i suoi danni. Se un bambino cresce pensando che la comunicazione sia virtuale, cresce in maniera autistica, perché non conosce i sensi.

Insomma, i danni psicologici saranno uguali o addirittura superiori dei danni economici. Ecco, quando finirà il lockdown ci abbracceremo come fratelli alla fine della guerra? Oppure saremo spaventati di uscire piano, in silenzio, spaventati incapaci di superare le distanze dagli altri?

La mente non è un interruttore, non c’è una leva che va giù e una che va su. Così quando finirà il virus non ci sarà una leva che andrà on, sopravviveranno delle paura, sopravviveranno dei giustificati timori dell’altro. Guardi, il timore per l’altro l’abbiamo sempre avuto. Che si chiamasse nero, ebreo, comunista. Questa volta è l’infettivo, è manzoniano. Ci sarà un periodo in cui ci sentiremo a disagio a stare in una metropolitana affollata.

Quando durerà?

Non penso che staremo a distanza di un metro fino all’eternità. Torneremo al ristorante, in spiaggia, con un po’ più di accortezza. In questi giorni c’è tanta gente che telefona a persone con le quali non parlava da tempo. Questa cosa ci dice che quando viene mancare la libertà, questa libertà proviamo a cercarla. La libertà è anche cercare un amico. La voglia di farsi due risate attorno a un tavolo non potrà essere sostituita da sei tablet in collegamento su Zoom.

L’HUFFPOST

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