Coronavirus, non basta dire «state a casa»
di Aldo Cazzullo
Per il Sabato santo, la Curia di Torino terrà un’ostensione della Sindone in diretta tv mondiale. Tradizionalmente, il Lino veniva esposto per invocare la fine delle epidemie. Ma nel 1630, l’anno della peste manzoniana, i Savoia e il sindaco Giovanni Francesco Bellezia concordarono di tenere la Sindone nel Duomo, per evitare assembramenti in piazza che avrebbero esteso il contagio. Solo alcuni privilegiati – forse antenati di coloro che oggi riescono a fare tampone e cura virale in casa – poterono venerarla. Non è noto, ma non è escluso che alla popolazione sia stato raccomandato di lavarsi spesso le mani, cantando per due volte un ritornello augurale. Il morbo infuriò, raggiunse il picco, defluì. La vita riprese.
Quasi quattro secoli dopo, i provvedimenti che l’Italia ha preso contro la pandemia Covid-19 sono gli stessi. In sintesi: non uscire, aspettare, eventualmente pregare. Tutto giusto. Ma non basta. Perché nel frattempo la tecnologia e la ricerca ci hanno resi molto diversi da come eravamo nel Seicento. Perché non usarle? Ci sarà tempo per verificare meriti e responsabilità. È evidente che sono stati commessi errori: non prepararsi all’arrivo del virus, non predisporre scorte di mascherine, non proteggere medici e infermieri, lasciare che molti ospedali diventassero focolai, non fare della Val Seriana una zona rossa.
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