L’arte di dire e rincuorare
Quasi nessuno in questi mesi se n’è mostrato all’altezza. Non stupisce. La decadenza dell’oratoria politica è parte di un ampio processo storico di decadenza dell’uomo pubblico e di trasformazione dei mezzi di comunicazione. Eppure, l’inadeguatezza dei discorsi dei nostri leader di fronte alla pandemia è anche misura della loro inettitudine a fronteggiarla. Pochi esempi.
Negli inferi della retorica troviamo le parole sciagurate di Boris Johnson di metà marzo («Molte famiglie perderanno i loro cari», affermato con impietoso fatalismo; «condivido l’ottimismo del Presidente Trump», in stridente contraddizione con la dichiarazione precedente) e quelle di Christine Lagarde («Non siamo qui per chiudere gli spread»), pagate anche in prima persona dal premier britannico con il ricovero in terapia intensiva e da un intero continente tramite i crolli di borsa nel secondo caso. Al grado zero dell’arte retorica si posiziona lo stesso Trump il quale — va ricordato — ha fatto del sistematico annientamento di un discorso pubblico articolato, sapiente, veritiero e coerente uno dei principali strumenti del suo successo. Di fronte al dramma collettivo, però, questa tattica di Trump si rivela suicida perché si dimostra commisurata alla sua tragica inettitudine a fronteggiare l’emergenza, prima negata, poi sottovalutata, poi cavalcata e di nuovo sminuita a giorni alterni. Nessuna orazione di quello che un tempo fu il «leader del mondo libero» sarà ricordata perché la sua comunicazione è costantemente rimasta al di sotto del livello del discorso.
Nei cieli dell’eloquenza troviamo, invece, la preghiera di Papa Francesco nella Piazza del Vaticano deserta, la cui portata epocale (si veda l’analisi di Aldo Grasso) dipende forse più dalla potenza immane della scenografia che non dalla parola in se stessa («Dio, non lasciarci in balia della tempesta»); e, troviamo, non a caso, un altro leader venuto dal Novecento, la Regina Elisabetta la quale, forte di una tradizione che tramite Churchill risale fino a Shakespeare (Enrico V), rincuora il suo popolo con la mossa retorica di usurpare l’autorità del futuro per conferire al presente la suprema dignità di evento storico memorabile («Chi verrà dopo di noi dirà che i britannici di questa generazione sono stati forti come nessun altro»).
Nel purgatorio di un linguaggio effimero e inadeguato i briefing quotidiani dell’assessore alla sanità lombardo il quale, parlando a braccio, moltiplica le insensate metafore belliche («vinceremo questa battaglia»; «la vittoria è vicina!») fino al paragone iperbolico e del tutto inaccurato con l’apocalisse nucleare («In Lombardia una bomba atomica»). Anche in questo caso, il vaniloquio è misura della inadeguatezza pratica nel fronteggiare il pericolo per la salute pubblica che va assumendo, giorno dopo giorno, il profilo di una grave e colpevole inettitudine.
Parlare a vanvera implica spesso agire in maniera scomposta, andare allo sbaraglio. Oggi, mentre scrivo, il numero dei morti in Lombardia raggiunge la cifra tremenda e simbolica delle 10.000 vittime. Innanzitutto a loro dobbiamo parole adeguate alla gravità del momento. Come si può, vi chiedo, blaterare di «vittoria» mentre dobbiamo seppellire diecimila morti? Cosa proveranno i parenti dei defunti sentendo nominare quella parola oscena? E come potremo tutti noi uscire redenti da questa ecatombe se li dimentichiamo?
Io credo che, prima di parlare di qualsiasi «fase 2», noi si debba piangere i nostri morti. È essenziale non solo per la nostra dignità morale e salvezza spirituale ma anche per il futuro della nostra comunità politica. Poiché mi scopro inadeguato al compito, vorrei insieme a tutti voi compiangere i nostri morti affidandomi alle sconsolate, implacate ma pietose parole del poeta: «E tu, padre mio, là sulla triste altura / maledicimi, benedicimi, ora con le tue lacrime furiose. Te ne prego. / Non andartene docile in quella buona notte / infuria, infuria contro il morire della luce».
CORRIERE.IT
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