La vita dopo il Coronavirus
Il rebus dei bambini
Più difficile immaginare il distanziamento sociale dei bambini delle elementari. Si parla di contrarre il tempo pieno in modo da risolvere l’impossibile gestione del servizio mensa. Ma resta il problema dei più piccoli,
quelli di prima e seconda: impossibile pensare che riescano a
rispettare le norme di sicurezza per tutte quelle ore. E d’altra parte
per loro non è immaginabile nessuna forma di didattica a distanza se non
in compresenza con i genitori. Per le scuole d’infanzia e i nidi –
statali, comunali e privati – i posti almeno in un primo momento andranno sicuramente contingentati dando la precedenza alle famiglie che più hanno bisogno,
come già si è fatto in questo periodo in Francia e in Germania
garantendo la continuazione del servizio solo ai figli dei medici e
degli altri lavoratori impegnati in servizi essenziali. Di certo
bisognerà immaginare soluzioni diverse e adattabili per ciascun tipo di
scuola.
Una nuova didattica
Lo sforzo di questi mesi – l’enorme esperimento della didattica a
distanza fai-da-te creato da presidi e prof – sarà servito se la scuola
riuscirà a immaginare soluzioni diverse e flessibili per gestire la sua
missione in modo più moderno e adatto ai tempi e se saprà far tesoro di
quest’emergenza per essere pronta per ogni altra situazione inaspettata.
Ascoltando anche pedagogisti, psicologi ed esperti di didattica e
confrontandosi con le scelte degli altri ministri dell’Istruzione
europei, visto che il coronavirus è un problema comune da cui si può
uscire solo con soluzioni condivise.
Ospedali e pronto soccorso, come ci cureremo?
di Luigi Ripamonti
Sebbene la pandemia di Covid sia ancora in corso, volendo dare uno sguardo al futuro prossimo che cosa possiamo aspettarci che cambi nella gestione della salute? «Fino a che non avremo un vaccino o una cura risolutiva dovremo rispettare le attuali regole di distanziamento e di protezione nell’accesso alle strutture sanitarie» risponde Walter Ricciardi, professore di Igiene all’Università Cattolica di Roma, rappresentante italiano del Comitato tecnico dell’Oms e consigliere del ministro della Salute.
Gli accessi ai Pronto Soccorso sono per forza di cose
diminuiti molto in questo periodo. Non crede che abbiamo capito che non è
sempre necessario andarci per problemi che potrebbero essere gestiti
altrove o altrimenti?
«Non credo se non sarà rivista la gestione del Servizio sanitario
nazionale. Il sistema non potrà continuare a girare solo sull’ospedale
come perno principale. Ne saranno necessari altri due: uno costituito da
una medicina territoriale organizzata, fatta di distretti, ambulatori,
assistenza domiciliare, residenze sociosanitarie, che in alcune parti
del Paese non esistono proprio o sono molto insufficienti e un altro
rappresentato da tutto quello che potrà essere fatto a casa. E anche il
ruolo dei medici di medicina generale dovrà essere ripensato all’interno
di un sistema come questo».
Sarà possibile realizzare una struttura di questo genere in modo omogeneo in tutto il Paese?
«No se continueremo ad avere, di fatto, 21 realtà regionali diverse
come ora. La pandemia ha messo chiaramente in evidenza che in questo
modo la risposta è troppo differenziata per essere efficace».
Come sarà organizzata la gestione dei casi di Covid nel prossimo futuro, fino a quando l’emergenza non sarà davvero finita?
«Ci dovremo riorganizzare innanzitutto con ospedali Covid in modo
che i malati siano trattati senza rischio di contagiare altri settori
dell’ospedale e, poi, da lì, altrove».
Quando sarà finita l’emergenza che cosa ce ne faremo dei posti di terapia intensiva che sono stati creati, e che costano molto?
«La pandemia ha dimostrato che, comunque, era necessario averne più
di quelli di cui disponevamo, quindi molti rimarranno. Gli altri
potranno essere convertiti a terapia sub-intensiva, di cui comunque c’è
necessità».
A livello mondiale quanto cambierà, se cambierà, il coordinamento contro la pandemia?
«Se dopo questa emergenza ci sarà una volontà politica forte ci
saranno dei cambiamenti. A livello europeo c’è da chiedersi, per
esempio, se ha senso l’attuale organizzazione, senza un vero ministro
della salute europeo che coordini le politiche sanitarie comunitarie. A
livello mondiale bisognerebbe invece attribuire all’Oms non solo potere
normativo ma anche operativo, specie per aiutare gli Stati più in
ritardo».
Ci possiamo aspettare un aumento del ricorso alla telemedicina?
«Certo, è già nei fatti e diventerà una certezza a breve».
Come cambierà il modo in cui lavoreremo?
di Corinna De Cesare
Per capire come cambierà il lavoro dopo il coronavirus basta partire dal dietro le quinte delle interviste contenute in questo pezzo: un amministratore delegato spadellava (e mangiava) mentre era al telefono, un altro stava seduto al computer con un braccio ingessato e gli occhi rivolti verso la montagna, un altro lavorava dal terrazzo. Il lavoro insomma è già cambiato ed è stato il primo cambiamento, forte, immediato, allo scoppio dell’emergenza sanitaria. Gli uffici si sono svuotati e si sono trasferiti nelle nostre case, in un angolo del salone, della cucina, del terrazzo o della camera da letto. Facendo schizzare in alto l’asticella dello smartworking, strumento usato fino a poco tempo fa da una modestissima fetta di imprese. Chi è rimasto in azienda, quelle rimaste aperte durante il lockdown, si è munito di mascherine e guanti, non ha usato l’ascensore, si è allontanato dai colleghi, ha attuato insomma le classiche misure di sicurezza che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi mesi definendole tristemente «distanziamento sociale».
Nell’automotive, uno dei settori più colpiti dal coronavirus, cominciano a vedersi i primi accordi con i sindacati per la fase2, quella della ripartenza. Con obbligo, vedi Fca, di mascherina per tutto il personale, rilevazione delle temperature prima dell’ingresso in azienda, mantenimento della distanza di almeno un metro, sanificazione degli ambienti, procedure per evitare assembramenti nelle mense e negli spogliatoi dove ovviamente si farà abbondante uso di dispenser di amuchina. È solo una delle prime intese raggiunte ma che ci dice molto di quello che sarà il lavoro dopo. Perché come spiega Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft, “niente sarà come prima”. Neanche in ambito sanitario, il settore di cui più si parla in questo momento storico. “Con Teams ad esempio – spiega Candiani – i dottori si stanno coordinando tra loro per evitare contatti ravvicinati e hanno la possibilità di eseguire appuntamenti e visite con pazienti che non richiedono indagini di persona. La telemedicina, coadiuvata con rilievi da fare a casa, cambierà il modo di erogare le prestazione sanitarie». Gli psicologi hanno cominciato a fare sedute di psicoterapia collegati in videocall e circa “10 mila giudici in Italia hanno approvato l’uso di Teams – aggiunge Candiani – in un settore in cui, bisogna ricordarlo, c’è ancora il messo comunale che ti porta le notifiche”.
E così cominciano a proliferare aziende e startup che vendono sensori indossabili, ingegnerizzati e capaci di avvertire se si è troppo vicini a qualcuno e quindi, più a rischio. Utilizzabili ad esempio nelle catene di montaggio o nei magazzini dove vengono smistati i prodotti comprati online.
Ovviamente il lavoro subirà delle conseguenze, pesanti, anche dal punto di vista numerico: secondo l’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del lavoro dell’Onu, rischiamo di perdere 25 milioni di posti di lavoro. Una cifra monstre con alcuni settori particolarmente in difficoltà: manifattura, real estate, vendita diretta, trasporti, ristorazione ma anche musica, arte e spettacolo. Che concerti vedremo nel futuro? Sarà ancora possibile riempire gli stadi? Sono domande che in questo momento si stanno facendo tutti gli artisti e il personale che ruota attorno a questo campo. “Anche se la tecnologia sta già cambiando da tempo questo settore – spiega Marco Alboni, amministratore delegato di Warner Music – ci sono ologrammi in concerto, i Coldplay che presentano l’album con due concerti in cima all’antica Citadel di Amman in Giordania in diretta su Youtube. L’adattamento a questa nuova situazione farà emergere competenze nuove, aziende nuove, tipi di business che non esistevano prima, anche nella musica e nelle arti”. Ma le folle radunate a Circo Massimo o come nel 2017 per il Modena Park di Vasco Rossi, sarà molto difficile rivederle a breve termine.
“Con il virus dovremo conviverci, questo è evidente – aggiunge l’amministratore delegato di Randstad, agenzia per il lavoro – e il lavoro è già cambiato. Le faccio un esempio: in questi giorni avevo bisogno dell’elettricista, il mio non era disponibile e ha mandato un suo ragazzo. Era più giovane, con meno esperienza, ma aveva uno smartphone e con un’app di realtà aumentata è riuscito a fare delle cose che da solo non sarebbe stato in grado di fare”. Non è escluso che in futuro queste app potremmo usarle anche noi, coadiuvati da remoto dall’elettricista senior.
“Dobbiamo prepararci ad affrontare due fasi – puntualizza Cristina Pozzi, ceo di Impactscool e autrice di “Benvenuti nel 2050” (Egea, 2019) – la fase di passaggio e quella di trasformazione che determina come cambieranno le cose a lungo termine. Secondo Harvard quella del Coronavirus sarà un’emergenza che ci porteremo avanti fino al 2022 con alcune categorie di lavori a rischio che continueranno a tutelarsi solo in un modo: restando in casa. Di certo, in questa fase di passaggio, abbiamo dato un’accelerazione alla digitalizzazione che fa anche bene all’ambiente e questa mi sembra già una buona notizia. Sicuramente saremo più fluidi, multicanale, multi strumento, tutte cose che le nuove generazioni si portano dietro nel dna. Tutti gli altri saranno costretti a cambiare mentalità, anche con l’aiuto di digital evangelist. Perché non è tanto fare riunioni su Zoom o su Teams da remoto, come sta succedendo in questi giorni, ma di non farle durare un’ora e mezza come prima, imparando a essere più agili, flessibili. Alcuni settori dovranno reinventarsi, dall’albergatore alla piccola attività commerciale che dovrà imparare a fare le consegne a casa e non come sta succedendo adesso attraverso un numero di telefono che risulta sempre occupato. Di sicuro c’è fermento digitale e per la prima volta non ha come prima finalità il guadagno e questo potrebbe sicuramente portare a un’accelerazione dei processi innovativi”.
Come cambierà l’Europa?
di Paolo Valentino
BERLINO – Forse non dovremmo sorprenderci se l’Unione europea non ha fin qui giocato un ruolo di primo piano nella risposta globale al Covid-19. Quando la minaccia ha un carattere esistenziale, governi e policy maker tendono infatti a ripiegare su ciò che conoscono meglio, che in Europa significa semplicemente lo Stato nazionale. Ma la pandemia e le sue devastanti conseguenze economiche non sono risolvibili nel tradizionale paradigma, ancora debitore del sistema di Vestfalia, la pace che nel 1648 mise fine alla Guerra dei Trent’anni. Il Coronavirus può quindi diventare l’”asteroide” caduto sul nostro pianeta, in grado di forzare gli europei a prendere con maggiore determinazione e velocità la strada della “ever closer union”, all’insegna di una solidarietà più profonda e concreta.
Una cosa è chiara: quella del Covid-19 è la prima crisi del Terzo Millennio che colpisce l’intero genere umano e, come ci ha spiegato Fareed Zakaria in una intervista al Corriere, rischia di essere la prima di una serie di crisi a cascata – default, depressione nelle economie emergenti, esplosione degli Stati petroliferi, ecatombe e carestia in Africa – che potrebbero letteralmente far esplodere tutti i quadranti strategici, precipitando il mondo in una spirale senza salvezza.
Ci sono due possibili scenari di uscita da questo tunnel, secondo gli studiosi dell’Istituto Montaigne di Parigi. Il primo è la definitiva consacrazione della Cina come la nuova Superpotenza mondiale, in grado di proiettare hard e soft power, crescita economica e perfino il fascino sinistro di un nuovo modello autoritario. L’altro è che il Covid-19 abbia un effetto rigenerante sull’Occidente, con il ritorno dell’America sulla scena internazionale (previa elezione di Joe Biden alla Casa Bianca il prossimo novembre) e un nuovo protagonismo dell’Europa, cui spetta il ruolo di rivitalizzare la cosiddetta global governance.
Lo farà? Lo faremo? Molto, se non tutto dipende dalla Germania, ancora nonostante tutto ostaggio dei fantasmi della sua storia. È a Berlino, al netto delle velleitarie ambizioni olandesi, l’ostacolo probabilmente maggiore di fronte all’Europa, per compiere la sua definitiva emancipazione dagli Stati Uniti, non nel senso di rompere il legame transatlantico, ma di agire finalmente in proprio sulla scena globale, sul piano economico e strategico. Perché senza assunzione di responsabilità finanziaria e strategica tedesca, intorno a cui raccordare i grandi Paesi come Francia, Italia, Spagna, non può esserci un’Europa forte e credibile.
La veemente conversazione nazionale in corso nella Repubblica federale sui Coronabonds è la spia che un movimento in questa direzione è già in atto. Non solo nell’establishment – istituti economici, grandi giornali, imprenditori, parte della classe politica compresi settori della Cdu – ma per la prima volta anche nell’opinione pubblica: un sondaggio ZDF rivela infatti che il 68% dei tedeschi è favorevole a un ‘aiuto finanziario verso i paesi più colpiti dalla crisi come Italia e Spagna. Spetta ad Angela Merkel, nella discussione sul Fondo di rilancio per il dopo-coronavirus che sta per cominciare, offrire una visione politica senza la quale il futuro dell’Europa potrebbe essere a rischio.
Come saranno le partite allo stadio – e lo sport?
di Arianna Ravelli
Difficile che succeda come in Bielorussia, dove si continua a giocare ma sugli spalti sono comparsi dei manichini, perché nonostante il presidente Lukashenko sostenga basti un po’ di vodka per battere il virus, i tifosi hanno pensato bene di non rischiare. No, i manichini negli stadi italiani non li troveremo, gli spalti resteranno semplicemente vuoti. Le porte chiuse diventeranno la nuova normalità: i giocatori non avranno il sostegno del pubblico, e quindi vincerà chi sarà capace di trovare motivazioni da solo, dalla tv vedremo partite in cui si sentono le indicazioni degli allenatori e non i cori delle curve (il che non è sempre un male). Ad attendere le squadre fuori dagli spogliatoi o da un centro di allenamento non ci saranno più ali di folla in cerca di un selfie. Star isolate.
Niente tackle
Molto più facile succeda quello che, in parte, sta già capitando in
Germania, perché immaginare il futuro è più facile se prendiamo spunto
da chi è un passo avanti a noi: quasi tutte le squadre della Bundesliga
hanno ripreso ad allenarsi, per gruppi composti da non più di sette
giocatori, mantenendo un metro e mezzo di distanza sul campo di gioco,
evitando i tackle. Surrogato di calcio? Sì, ma è a forza di surrogati
che ci nutriremo da qui in avanti, esattamente come nella nostra vita
personale quella che prima era un corso in palestra ora è una app (o un
video tutorial), i pesi sono diventati le bottiglie dell’acqua, gli
squat in salotto l’esercizio più praticato.
Un ritiro infinito?
In Italia le squadre di A dovrebbero tornare ad allenarsi il 4
maggio. Come? In sintesi, costruendo attorno a sé una bolla virus free
dentro la quale restare protetti. Non così facile, soprattutto perché
prima di ripartire bisognerà sottoporre giocatori e staff ai tamponi,
magari ai test sierologici (ma gli atleti saranno una priorità del
governo?) e a tutta una serie di visite mediche, naturalmente più
approfondite per chi è stato positivo. Test che potrebbero essere
ripetuti ogni tot giorni (e i calciatori non sono entusiasti). Una prima
indicazione ci sarà mercoledì dal protocollo che uscirà dalla Figc, poi
deciderà il governo. Quello che si può fare prima è sanificare i
centri di allenamento. Poi per gli atleti potrebbe diventare normalità
passare da una quarantena a un’altra: alcune squadre — quelle dotate
anche di alloggi nei centri — stanno pensando di mantenere in un ritiro
prolungato i calciatori. Ma è realistico farlo per due mesi? Non tanto.
Il futuro di Formula 1 e sport olimpici
Gli atleti degli sport olimpici (da Federica Pellegrini a Filippo Tortu) che si allenano in casa, dal 4 maggio forse torneranno alle piscine o alle piste, ma per loro non ha senso forzare perché gare all’orizzonte ancora non ce ne sono. La F1, che spera di ripartire il 5 luglio in Austria o il 19 luglio in Inghilterra viaggiando tutti assieme su charter dedicati, ci abituerà anche a tre gare di seguito; sicuramente fuori Europa i weekend saranno contratti su due giorni, libere e qualifiche al sabato, gara la domenica. Si andrà avanti così fino a dicembre, anche gennaio se necessario. Non esistono più le stagioni (mezze o intere che siano) nella nuova normalità.
CORRIERE.IT
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