La Regione Lombardia lancia la «fase 2» dal 4 maggio: codici e deroghe, rebus imprese

Questa premessa ci introduce nel prossimo tema, il mondo del lavoro. Partendo da una cifra: le 4.500 aziende tra Milano e provincia che hanno aperto e sono già state monitorate. Le verifiche sono state svolte in maggioranza dalla guardia di finanza e hanno riguardato il possesso o meno del permesso di operare. La strategia dei controlli è coordinata dalla prefettura; con una «condotta» elogiata anche dai sindacati, e non è mai scontato, e al netto di una forte difficoltà che deve rispondere a una gestione differente in Italia per quanto riguarda norme, regole e territori, la prefettura sta sperimentando un modello nuovo. Creato dal nulla. Per necessità.

Ciò non toglie le criticità generali. Il permesso di aprire le aziende è vincolato al codice Ateco: è il codice identificativo alfanumerico fornito all’apertura di una nuova attività e relativo sia alla categoria produttiva sia alle successive specifiche (i rami della stessa produzione) e risponde all’elenco delle categorie «incluse» dal Governo. Nella casistica esaminata dai finanzieri — non entrando fisicamente nelle ditte, ma attraverso analisi documentali e banche dati — ci sono temi dominanti sollevati dagli imprenditori. La discrasia tra codice Ateco e quell’elenco, poiché c’è chi compare nel secondo ma è privo del primo. I motivi? In fase di apertura l’imprenditore aveva ricevuto un codice X da definire più avanti, dunque serve la conversione, operazione non facile a causa della logistica (uffici chiusi, intasamento di richieste online, attese per le pratiche); dopodiché, vi sono aziende inserite in filiere straniere, e «fuori» dall’Italia anziché sul codice Ateco ci si basa sul codice Nace, la classificazione statistica delle attività economiche in Europa. Semplici scambi di parole? No, proprio per niente: spesso, si rischiano trappole della burocrazia. Un altro problema riguarda la stessa filiera, in quanto ci sono operatori che hanno sì l’avallo per lavorare ma magari, esempio frequente, dispongono di macchinari che, se si rompono, devono per forza essere riparati da altre società queste però, al momento, escluse dalla lista delle «aperture».

Non servono botte di pessimismo cupo per allevare timori. L’ultima circolare del Viminale dà il via libera alle ispezioni nei luoghi di lavoro alla ricerca del rispetto delle norme di sicurezza. In campo Asl, ispettorati del lavoro e, di nuovo, i finanzieri. Come faranno le aziende a inventarsi una nuova logistica e dotare i dipendenti degli strumenti necessari è un altro mistero, quando ancora ieri dalle ditte sono state segnalate situazioni preistoriche, con operai privi di ogni scudo, specie nella logistica e a cominciare dall’assenza delle maledette mascherine. Ecco, si fatica a trovarle. Il ritardo è catastrofico, se pensiamo che l’inizio della zona rossa in provincia di Lodi è del 23 febbraio.

La distribuzione ancora latita. Non traggano in inganno i numeri sventolati dalle istituzioni: sovente si tratta di mascherine inutilizzabili nel giro di pochi secondi (coi prezzi che restano da rapina). Fonti investigative ricordano alcuni fenomeni in ordine sparso. Nessuna grande azienda italiana ha voluto riconvertirsi e produrre milioni di pezzi, così da garantire l’arrivo in ogni casa a costi prestabiliti, scenario che avrebbe contrastato ritardi e speculazioni. L’approvvigionamento del prodotto, salvo pochi casi di aziende che hanno, loro sì, cambiato la produzione, dipende dall’estero: Russia e Cina nella fase iniziale, e altre nazioni come Israele che si sono aggiunte.

Ma grossi quantitativi giacciono a lungo nelle dogane. Stando a una recente circolare dell’Agenzia delle dogane, «la procedura di sdoganamento diretto» può avvenire esclusivamente avendo come destinatari i seguenti soggetti: «Regioni e Province autonome, enti locali, pubbliche amministrazioni». Non direttamente le aziende, che debbono aspettare il ritiro da parte di uno degli enti sopra indicati. E il tempo passa. Al netto di considerazioni finali: la permanenza della sospensione di ogni richiesta di fallimento, nel timore di imprenditori che approfittino della crisi per svuotare tutto; si sta indagando su società che di facciata producono mascherine ma in realtà hanno bisogno della copertura per fabbricare altro, aggirando i divieti. A monte, nell’incertezza, i mutui e le rate delle finanziarie passano inesorabili. Come le bollette. Nessuna tregua per nessuno.

CORRIERE.IT

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