L’estate in montagna senza rifugi
di GABRIELE ROMAGNOLI
Il Cai gestisce 373 rifugi in tutto il Paese. Le strutture salgono a
715 con bivacchi e punti tappa di escursioni a bassa quota. I posti
letto totali sono 18.568, oltre 35 mila se si aggiungono quelli in
rifugi privati: il coronavirus minaccia la sopravvivenza di oltre 5 mila
famiglie di gestori, soccorritori e guide alpine, storici custodi delle
terre alte. “Alle condizioni attuali – dice Mario Fiorentini, cadorino,
gestore del rifugio Fiume sul Pelmo e presidente dell’associazione che
in Veneto riunisce sessanta strutture – illudersi di una normale estate
in montagna non ha senso. Ammesso che frequentarla sia possibile, il
contagio imporrà regole nuove. I rifugi non sono alberghi, ma luoghi di
condivisione. Si dorme in camerate comuni, i bagni sono collettivi, le
cucine sono piccole, i pasti vengono consumati su tavolate uniche:
l’opposto del distanziamento sociale.
Si potrebbe aprire almeno come punti ristoro. Nelle giornate di bel
tempo i pasti potrebbero essere consumati all’esterno. Faremo ogni
sforzo, pur di assicurare un riferimento a chi sale nelle Dolomiti”. Tra
i gestori, su Alpi e Appennino, fragili speranze e una solida
preoccupazione. Molti non potranno pagare gli affitti: se lo faranno,
non sapranno come mantenere la famiglia. I rifugi però si trovano in
luoghi estremi. Hanno bisogno di presenza e manutenzione costanti.
“Abbiamo attivato un fondo per i gestori in difficoltà – dice Montani –
ma non basta. Se si perde la stagione, serve l’intervento del governo
per finanziare i rifugi che garantiranno comunque presenza, ospitalità e
soccorso in casi d’emergenza. Migliaia di escursionisti ogni anno si
salvano grazie all’aiuto dei gestori, solo grazie a loro i sentieri
restano aperti”. La risposta è già commovente. Telefonano alla sede
centrale del Cai e dicono: “Noi, in ogni caso, ci saremo”.
Coronavirus, la situazione in Italia
I rifugi hanno una lunga storia, le famiglie sono lì per passione. Sono
loro a dare l’allarme in caso di incidente, spesso a recuperare e a
offrire un ricovero. “Impensabile in Europa – dice il re degli Ottomila
Reinhold Messner – una montagna aperta al turismo di massa, ma priva di
strutture e di persone per le emergenze come in Himalaya. Le situazioni
poi non sono tutte uguali. Ci sono rifugi a bassa quota, raggiungibili
su strada e simili a hotel. Ci sono quelli in alto, basi per le ascese
alle vette. Per i primi si possono immaginare prenotazioni obbligatorie e
servizio esterno. Per i secondi no, anche perché gli alpinisti sono
soprattutto stranieri. Un gestore non può chiedere i documenti ai
clienti. Non sa da quale nazione, o da quale regione, provengono. In
origine i rifugi erano base di partenza, ora sono punto d’arrivo e ogni
luogo ha condizioni sanitarie differenti: non si può controllare chi
scende dalla stessa automobile all’attacco del sentiero”.
Con un servizio di livello sempre più alto, anche nella cucina, aprire
solo in parte non è però economicamente sostenibile. Per questo anche in
montagna si profila “un’estate di guerra”. “Rinunciare a certe
esagerazioni – dice Carlo Gallazzini, storico gestore del rifugio
Mandrone sull’Adamello, fra Trentino e Lombardia – ci farà bene. Partire
con tutto l’occorrente sulle spalle, specie per chi attraversa i
ghiacciai, sarà però una sfida fisica. Serviranno più responsabilità e
valutazioni attente, anche per non mettere in pericolo i soccorritori in
caso di imprevisti. Per economia e società invece sarà un tracollo:
come nella prima guerra mondiale, qui si torna a resistere su un fronte
che minaccia di cedere”.
rep
Senza estate
di ANDREA IANNUZZI Il turismo in montagna vale l’80% del reddito. L’Italia è montuosa per il 46%. Con rifugi e impianti chiusi, le località alpine rischiano il crack. Vietata, fino ad oggi, anche la manutenzione dei sentieri. Le piccole botteghe, gli alberghi famigliari e i contadini che vendono i propri prodotti, sono a un passo dal fallimento. “Partendo dai rifugi – dice Giuliano Masoni, gestore della Capanna Margherita, 4554 metri di quota sul Monte Rosa, il rifugio più alto d’Europa in valle d’Aosta – va aperto subito un confronto politico sul futuro della montagna italiana. Mai come oggi la gente ha bisogno di uscire, di muoversi e di respirare aria pulita. Dobbiamo porre le condizioni per renderlo possibile e sicuro. Se lavoriamo seriamente, si può: specie in alta quota, riducendo i posti letto, con prenotazioni e sanificazione. Qui si viene per un letto, non per mangiare. I medici hanno rivoluzionato gli ospedali: noi, per vivere e garantire la sicurezza, siamo pronti a rivoluzionare i rifugi. Mandare via la gente in difficoltà non è un’opzione”.
Covid 19 così non risparmia boschi e rocce. “Le Alpi e l’alpinismo – dice Messner – tornano alle origini di due secoli fa. La natura con la solitu dine respira, ma non abbandonare le terre alte oggi è un dovere per evitare uno spopolamento definitivo. Altrimenti le prossime estati in montagna sorgeranno sul deserto”.
REP.IT
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