Riaperture “aumm aumm”

Scusate se cito la mia esistenza di comune proscritto in tempo di covid-19, e soprattutto le soddisfazioni che ho voluto donarmi durante la pandemia: ho acquistato in rete una litografia di Gastone Novelli, notevole pittore del nostro Novecento, maestro del segno, il “pittore che scrive”, che dette volto all’antologia del Gruppo 63. Bene, il plico mi è prontamente arrivato, peccato servisse la cornice, sono sceso in strada nella certezza che sarebbe stato impossibile procurarmela, e invece, somma soddisfazione, nella via dove un tempo viveva l’immenso poeta Giorgio, Caproni – “Tutti riceviamo un dono./ Poi, non ricordiamo più/ né da chi né che sia./ Soltanto ne conserviamo/ – pungente e senza condono –/ la spina della nostalgia.”,  versi perfetti per una epidemia –  ho trovato, sebbene con la saracinesca per metà abbassata e una paratia di plexiglass, un “cinese” aperto; mentre tornavo verso casa mi sono chiesto in nome di quale editto a me sfuggito quel negozio potesse svolgere la sua attività. Intanto c’erano molte più persone per strada, come in un imminente sabato del villaggio; non voglio ora discettare sui pericoli, sull’uso delle mascherine, dei guanti, del gel o d’ogni altro prodotto per l’igiene in tempi di virus, estremi; non voglio neanche interrogarmi su ciò che ne sarà di tutti noi, posto che reputo discutibile evocare il concetto stesso di Speranza, un’attitudine irreale, da approccio apotropaico all’esistenza stessa. Privo di aspettative, attendo, attendo, mosso, mi si consenta la parafrasi, dal pessimismo della volontà, pensando al miraggio della pizza del Panificio “Graziano” di Palermo, ignorando davvero quando questo mio sogno si potrà avverare. Non ho opinioni, solo attese. E rabbia assoluta, rabbia giacobina per il modo in cui sono percepiti gli anziani, i “vecchi”, nella situazione data: cose, scarti, ingombri da buttare via, i cimiteri come pattumiere.    

Giorni fa, per ironia, nel profilo Twitter, sotto la mia faccia e il mio nome, ho scritto “Virologo”, in cambio ho ricevuto insulti, come se davvero appartenessi a quell’albo medico. L’ho detto, non ho pensieri su ciò che potrà essere: vivo, come molti altri, in stato di sospensione, nello stesso istante devo constatare incredibilmente che chi aveva già trovato scampo al proprio bisogno d’aria sui terrazzi condominiali, compresi gli esercenti in attesa di tornare dietro il ricevitore di cassa, stanno scendendo, forse quatti quatti, le scale per raggiungere l’esterno, livello strada.

 So delle spinte da parte di Confindustria, so benissimo che la situazione economica è al limite dello stremo, eppure la domanda che qui pongo è un’altra, semplice, transitoria: in nome di quale editto di un rinato Costantino, almeno secondo la percezione che ne ho, il mondo si ripopola senza che sia risuonata la sirena ufficiale della ripartenza? Così in un falansterio di doppi incarichi e responsabilità, “cabine di regia”, esperti, con e senza mascherina, task force e consulenti, con e senza camice.

Facendomi soccorrere nuovamente dalla memoria cinematografica, ritrovo “Il minestrone” di Sergio Citti: una torma di disperati avanza lenta, facendosi precedere dal “Santone”, quest’ultimo, in luogo del bastone pastorale, innalza un’asta munita di flebo, e alla domanda di Roberto Benigni, che lo segue con il resto di un’umanità smarrita, inerme, vinta, affamata: “Ma dove ci hai portato?” Gaber, il Santone, prontamente risponde: “Ma che cazzo ne so?”

L’HUFFPOST

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