Fase 2, così vicini così lontani
Emblematico, dicevamo, il Parlamento. Emblematiche le regioni, protagoniste di una gigantesca riforma costituzionale di fatto, senza passare per il voto: un sorta di “federalismo virale” per cui, quando l’onda popolare portava la paura per la peste, si invocava la “grande serrata”, esercito, aviazione e chiusura dei confini e adesso che la paura è la carestia, Zaia riapre tutto ciò che è “apribile”, compresi i cimiteri e De Luca ipotizza le elezioni regionali a luglio. Solo una settimana fa il vulcanico governatore della Campania minacciava la chiusura dei confini qualora il suo collega veneto avesse allentato la presa.
Per quanto possa apparire folklore, in verità, tutto questo racconta, proprio nel momento più delicato, non solo di un generica confusione, ma di rischi insiti in questa situazione di tensione tra centro e periferia in cui è cruciale solidità di governo e certezza nella plancia di comando. È un fatto che, dati del governo, il 13 aprile risultavano oltre 9400 posti di terapie intensive (numero raddoppiato rispetto all’inizio della crisi) e adesso che la tensione si è abbassata ne risultato 8800, perché evidentemente i privati si sono ripresi una parte dei posti letto messi a disposizioni nel momento più delicato dell’emergenza. Ed è un fatto anche mentre sul sito della protezione civile sono visibili in modo trasparente i numeri di mascherine e ventilatori acquistati dallo Stato centrale, non è altrettanto visibile online quanti siano quelli acquistate della regioni.
Però, pur consapevole di questa dinamica, il governo che pure avrebbe argomenti per un’aspra censura si limita a convocare l’ennesima cabina di regia con i governatori, dopo aver convocato quella con la task force di Colao pur avendo constatato che sono più utili i tecnici dell’Inail che i professori di Harvard, quasi prigioniero delle proprie macchinazioni. È come se, dopo aver ceduto sovranità a questo coacervo di sovrastrutture, non fosse in grado di riacquistarla, perché ormai ha scelto lo schema di “accompagnare” più che di “guidare”, timoroso di “scontentare” e di disperdere il capitale di fiducia accumulato in queste settimane.
E si comprende perché, in questo quadro, il premier ha deciso di posticipare di un paio di giorni l’annuncio della cosiddetta “fase 2”, e non solo per la richiesta, da parte di alcuni ministri della sinistra, di non farlo il 25 aprile. Il che c’entra solo in parte con la sacralità laica della festa o col rischio di vivere la giornata come una “Liberazione dal virus” quando invece la guerra continua, ed è lunga e difficile. La ragione di fondo è che ancora non siamo pronti al passaggio delicato e, a proposito di 25 aprile, più si avvicina il momento dell’uscita dal tunnel più, diversamente da allora, si acutizzano linee di frattura, proprio nel momento in cui andrebbero unite le forze del paese, che rendono il futuro una incognita: all’interno del governo (sulla questione del Mes), tra governo e regioni, tra maggioranza e opposizione, con la prima che vive ogni possibile condivisione come una perdita di sovranità e la seconda che, anch’essa divisa al suo interno tra una posizione più ragionevole e una più radicale che punta sul default per prendere il paese. Al netto delle parole, due grandi debolezze che non fanno un tessuto unitario.
L’HUFFPOST
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