Lavorare a cicli di 14 giorni: il modello matematico per riaccendere l’economia, minimizzando i contagi
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Se è così, dicono Milo e Alon, possiamo impostare ritmi di allentamento della quarantena di 14 giorni.
Suddivisi così: si va a lavorare per quattro giorni. Sono i giorni in
cui, per lo più, il virus non è ancora abbastanza attivo da infettare
altre persone. Dopo il quarto giorno, via, in quarantena. E’ il momento,
infatti, di massima contagiosità. Chiusi dentro casa, non rischiamo di
infettare qualcun altro. E, allo stesso tempo, ci accorgiamo se siamo
malati. In questo caso – se, cioè, il virus ha attecchito – restiamo
contagiosi più a lungo, ma, siccome i sintomi sono evidenti, possiamo
prendere le opportune precauzioni, continuando nel nostro isolamento.
Se, invece, non ci sono segni di malattia, all’undicesimo giorno di
quarantena, possiamo riuscire per andare a lavorare. A questo punto,
infatti, per lo più la contagiosità è assente o molto ridotta.
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Le parole importanti, in questo schema, sono “per lo più”: il meccanismo
riduce la possibilità di contagio, ma non la elimina. E non annulla
affatto l’imperativo di continuare a praticare le usuali precauzioni: mascherina, guanti, due metri di distanza. Consente, però, di riaprire l’economia, con un rischio calcolato.
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Una eventuale ripresa dei contagi sarebbe, infatti, abbastanza contenuta
da non sommergere le disponibilità di medici, infermieri, ventilatori.
Si potrebbe perfezionare, dicono gli scienziati israeliani, anche con un
meccanismo di alternanza, dividendo la popolazione in due cicli di
quattordici giorni. Una settimana lavora il gruppo A, che, poi, al
venerdì, si chiude a casa, fino alla domenica della settimana
successiva. Intanto, però, il lunedì va a lavorare il gruppo B, fino al
venerdì eccetera. In sostanza, ogni settimana c’è metà popolazione che
lavora e l’economia, sia pure a ritmo ridotto, va avanti.
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Della ricerca israeliana, per ora, ci sono solo anticipazioni: il lavoro
deve essere ancora valutato e verificato secondo le abituali procedure
delle pubblicazioni scientifiche. Tuttavia la filosofia del danno
strisciante, ma ridotto, è già contestata: ancora una volta, a colpi di
modelli matematici.
Un’altra ricerca – dell’Università di California Berkeley – dice, più o meno, il contrario. Alla lunga, sostengono i ricercatori americani, contenere l’epidemia costa più che sopprimerla con quarantene rigide. Prolungare, con quarantene a metà o a singhiozzo, il periodo in cui si sommano i costi delle morti, dei giorni persi per malattia, del boom per medici, farmaci e ospedali, dei meccanismi di distanziamento sociale (nei trasporti, nell’intrattenimento, nel turismo) significa, alla fine, un peso finanziario superiore a quello che si deve sopportare per una quarantena brusca, rigorosa, totale, ma di durata inferiore. A Berkeley invitano a considerare i costi della quarantena rigida come una sorta di investimento sul dopoepidemia. Anche qui, c’è una presupposto cruciale: devono essere in piedi sistemi di rilevazione e tracciamento dei contagi. Solo così, infatti, si sfruttano i benefici di una quarantena rigida: l’isolamento generale favorisce la riduzione dei contagi, che possono essere seguiti e circoscritti, consentendo agli altri di tornare presto ad una vita normale.
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