Distanza, igiene, pic-nic all’aperto: la montagna (dimenticata dal governo) si organizza per ripartire dopo il lockdown
Max Cassani
Nonostante gli appelli – del Cai, delle comunità montane, dei rifugisti, delle associazioni albergatori – la montagna è stata dimenticata. Ebbene sì, anche l’ultimo decreto governativo di domenica scorsa non ha tenuto in considerazione le (legittime) richieste degli operatori alpini di ricevere disposizioni chiare per la cosiddetta Fase 2. E cioè la necessità di avere linee guida comuni, protocolli sanitari, norme di sicurezza e distanziamento sociale da attuare per la lenta ripresa del turismo dal 4 maggio in poi, quando le maglie della reclusione forzata inizieranno pian piano ad allentarsi e il popolo di escursionisti, pedalatori e amanti della montagna tornerà a frequentare le terre alte. Coronavirus, ecco perché un metro di distanza non basta: la simulazione
«Il Club Alpino Italiano si è attivato e sta lavorando per scongiurare l’ipotesi della chiusura dei rifugi durante l’estate», aveva rassicurato il vicepresidente del CAI Antonio Montani. E aveva aggiunto: «Faremo di tutto, sia intervenendo nelle sedi istituzionali per spiegare la differenza che c’è tra rifugio e albergo sia mettendo a disposizione delle nostre sezioni e dei rifugisti tutte le risorse disponibili per poter contribuire alla riapertura delle strutture». Le associazioni di categoria si erano dette pronte a ripartire, a patto di non essere lasciate sole. Cosa che si è puntualmente verificata.
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