La punta dell’iceberg. Maggioranza inquieta su Conte, Renzi si muove per primo
Con il suo entourage ha ragionato sulle veline che il partito dell’ex rottamatore ha diffuso prima dell’intervento: “Il nostro leader lancerà l’ultimo appello”. “Non ha senso un annuncio di questo tipo – il senso del ragionamento – a meno che tu non voglia farlo per creare suspence a livello mediatico”. Le parole di Maria Elena Boschi dopo meno di un’ora che confermava “nessun ultimatum”, hanno confermato la certezza. Ma le antenne del premier rimangono alzate. Quello di Renzi è un modo per preparare la strada: fra un mese, due o tre, se deciderà di staccare la spina, potrà dire “l’avevo detto”. Se, al contrario, sceglierà di continuare quest’esperienza di governo, potrà rivendicare un supposto cambiamento “grazie a noi”.
Il Pd morde il freno. Nicola Zingaretti tranquillizza tutti, dice che “la maggioranza c’è” e auspica “concordia per sconfiggere il virus”. Un ministro derubrica Renzi a bluff: “Non c’è nulla di nuovo, è il modo in cui Italia viva sta in maggioranza, non prelude a nessun cambio di governo”. Ma si contano sulla punta delle mani gli esponenti dem che convintamente continuano a sostenere Conte. A nutrire forti perplessità sulla deriva che ha preso la gestione della crisi sarebbe l’influentissimo capo delegazione Dario Franceschini, ma non è l’unico, anche a vedere le continue stilettate che partono da Andrea Orlando, vicepresidente del partito. Nessuna volontà di defenestrare l’alleato per caso, almeno per il momento. Ma “serve collegialità e condivisione, questa tracotanza da dpcm ha francamente stufato”, dice un esponente dem di governo.
Il gruppo parlamentare del Movimento 5 stelle è terrorizzato, convinto che sia concreta la possibilità “che Renzi abbia qualcosa in mente, un piano, un premier alternativo”. Terrore più da attaccamento alla poltrona che calcolo politico, perché tra i vertici più che su Renzi si ragiona su Conte, e sulla comunicazione concertata da Rocco Casalino, che in quel mondo è un fattore assai più politico che comunicativo. E così la preoccupazione da un lato si incentra sulla sovraesposizione mediatica del capo del Governo, che ha rivendicato con orgoglio di parlare alle Camere e al paese solamente “dopo nove giorni dall’ultima volta”, in mezzo una conferenza stampa domenica, un’altra improvvisata a Milano lunedì, dichiarazioni a margine martedì eccetera eccetera. “Macron ha parlato due volte, la Merkel una”, sottolinea un membro dell’esecutivo, tirando una conseguenza dai risvolti potenzialmente fatali nel lungo periodo: “Così lo abbiamo fatto diventare il volto a cui associare il coronavirus, a meno di svolte clamorose sarà sempre ricordato per una ferita nel paese, sanitaria, sociale o economica che sia”.
C’è anche una critica di sostanza, che verte sull’indecisione, sulle marce indietro davanti a vescovi o calciatori, sui ritardi sulla App, sul decreto aprile fatto a maggio che sembra una barzelletta, sui soldi della cassa integrazione che non arrivano. La leggenda che circola nel mondo pentastellato racconta i questo colloquio tra Conte e Casalino, nel quale facendo uno dei tanti briefing sulla comunicazione, il primo piccato avrebbe detto al secondo “ricordati che non sono un politico, sono uno statista”. Vera o meno che sia, racconta molto della preoccupazione pentastellata che il treno deragli, per ubris o per insipienza. Più che per un ribaltone la preoccupazione è per una progressiva consunzione delle ragioni che tengono in piedi questo governo e al suo posto il premier. La difesa dell’avvocato Conte al presidente del Consiglio Conte davanti alle Camere non ha sortito gli effetti sperati.
L’HUFFPOST
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