Un disegno per farcela
Non si vede nel Paese, tranne rare eccezioni, la grande discussione che sarebbe necessaria per rilanciare e modernizzare le nostre aziende e le nostre produzioni. Non si vedono le idee e i progetti per spendere le risorse che prima o poi arriveranno dall’Europa. C’è una grande richiesta di soldi subito: legittima, anzi necessaria. Ci sono classi sociali da salvare dalla povertà, ci sono negozianti, artigiani, piccoli imprenditori che rischiano di non riaprire se manca il contante per pagare stipendi, affitti, bollette: basti guardare le code fuori dai compro-oro, e la crescita dell’usura. Servono provvedimenti-tampone, senza perdere altro tempo.
Ma non basta. Occorre un grande piano per mettere al lavoro i giovani: sviluppo, ricerca, infrastrutture, a cominciare dall’alta velocità al Sud. Soprattutto, dobbiamo rimettere in discussione noi stessi. Cose che ci sembravano scontate ora non lo sono più, ed è un bene. La scuola non è un ammortizzatore sociale per precari; è un settore su cui bisogna investire. Finora agli insegnanti lo Stato ha chiesto pochino e dato pochissimo. Invece i docenti andrebbero motivati, responsabilizzati (molti si sono ingegnati per continuare a fare lezione online), retribuiti meglio.
Lo stesso modello andrebbe applicato all’industria privata. Gli italiani lavorano più ore dei tedeschi ma producono meno: vogliamo affrontare il problema? Investire in formazione e tecnologia? Promuovere accorpamenti e consorzi che salvino le piccole imprese dall’estinzione? Servono un fondo e una serie di iniziative per consentire di rientrare dall’estero i giovani che vorrebbero farlo, affinché mettano quello che hanno imparato in ogni campo – nei campus come nei bar – al servizio della comunità.
Da ultima, ma non ultima: la salute. Quando erano colpiti da una pestilenza, i nostri antenati erigevano chiese e anche ospedali. Ci siamo tutti chiusi in casa due mesi non solo perché al Nord non c’erano abbastanza posti in terapia intensiva; anche perché, se il virus fosse arrivato al Sud con la stessa intensità, avrebbe provocato un disastro, forse una strage. Dobbiamo rassegnarci a questo come a un fatto compiuto? O i soldi del Mes vanno spesi per dare al Mezzogiorno un sistema sanitario europeo? E magari pure per fare più test virologici e più tamponi agli operai e agli impiegati in tutta Italia, in modo da non dover richiudere tra poche settimane?
Il governo non riesce a far arrivare i denari per la cassa integrazione; figurarsi se è in grado di concepire un disegno per la ricostruzione. Dall’opposizione, più che proposte e stimoli, vengono iniziative estemporanee, tipo mozioni di sfiducia individuali al povero ministro dell’Economia, o occupazioni notturne del Senato in mascherina nera. Ma è innanzitutto dal Paese, dalle categorie, dalla nuova leadership di Confindustria, dai sindacati, dall’opinione pubblica che deve crescere con forza una domanda di cambiamento.
Se tra un’ordinazione di sushi a domicilio e la lista d’attesa dal coiffeur trovassimo il tempo per affrontare anche questi argomenti minori, non sarebbe male. L’alternativa è chiudere o svendere, nella speranza ingenua e vana che l’Europa paghi a tutti il reddito di cittadinanza.
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