Che fare?
Di tutto questo, di una politica per l’immigrazione, non vi è traccia nella discussione pubblica, e non solo perché si è rinunciato, da subito, a cancellare nel “Conte 2” i temi fondanti del “Conte 1”, in nome di una stabilità che scivola nel governismo. Al fondo della rimozione c’è l’idea che le politiche migratorie producano una perdita di consensi verso la destra e dunque è meglio non parlarne, come quando, in piena campagna elettorale per l’Emilia Romagna si rinviò la discussione a dopo il voto, senza riflettere poi che le elezioni sono state vinte per un citofono, perché cioè la coscienza democratica emiliana si è rivoltata di fronte alla caccia all’uomo di Salvini verso un immigrato. C’è un drammatico scacco della ragione in questa sorta di ipnosi verso la destra, l’idea cioè che i propri principi non producono consenso è una resa per una forza politica, perché se è vero che i fatturati elettorali degli impresari dell’odio si fondano sulla paura, quell’impianto legislativo che alimenta “invisibili” e “illegalità” fornisce proprio alla destra le materie prime della sua fabbrica.
E allora, andiamo al dunque. Non è più il tempo di addolcire parole di fronte a una cesura nella storia del mondo, che rompe certezze consolidate nel vivere, produrre, pensare, nelle modalità dello stare assieme. E che rende attuale una questione antica: che fare? Acconciarsi a scegliere il male minore, il permanente compromesso per non scontentare gli alleati di governo o comprendere che c’è l’esigenza di un nuovo orizzonte, inteso come cambiamento negli stili di vita, nel modello di sviluppo, nel modo in cui si affronta la questione democratica, e dunque del fare politica, qui ed ora?
E invece, proprio nel momento in cui viene meno l’emergenza estrema, lo stato di eccezione, inteso come misure e sentimento collettivo, che ha dato al governo un elemento di coesione, la politica torna con la fragilità, la confusione, la paralisi decisionale di prima, col solito chiacchiericcio e la sinistra, sì la sinistra, che, in nome di una certa retorica della stabilità, pare aver rinunciato a una battaglia limpida in nome di una certa idea dell’Italia. Domando, con uno sguardo all’Italia reale: il Pd è il “partito degli italiani” con un suo punto di vista solido e autonomo o, semplicemente, il futuro comitato elettorale della lista di Conte, artefice, dietro la retorica della responsabilità, di una gigantesca abdicazione identitaria?
Non è questione di poco conto il silenzio sull’immigrazione, come non lo è quello sull’affaire Bonafede, per un partito che ha nel suo dna la legge Rognoni-La Torre, garantismo e inflessibilità sul tema della lotta alla mafia, e che ora rinuncia al cimento di comprendere le ragioni della scarcerazioni dei boss al 41bis, proprio nel momento in cui l’Italia veniva chiusa in una specie di 41bis collettivo, inteso come lockdown. Né è questione di poco conto questo continuo troncare, sopire, derubricare ogni questione in una dimensione di separatezza rispetto all’Italia reale: l’Italia della Cassa integrazione che ancora non arriva, della liquidità bloccata nelle trappole burocratiche, degli imprenditori che riconsegnano le chiavi delle aziende, con buona pace della propaganda da Grande Fratello sulle meraviglie del modello Italia.
Ecco, lavoro, giustizia, immigrazione: non si capisce quale sia l’idea di ricostruzione nazionale, fuori dalla propaganda delle conferenze stampa che occupano i tg (anche qui: lo stile è sostanza non solo quando governano gli altri). È tutta qui la debolezza del governo e della sinistra nel governo, mal coperta, come sempre accade in assenza di una visione, dai riflessi d’ordine: dai più garbati fino allo sfolgorante esempio di stalinismo sulle pagine del Manifesto, dove un gruppo di intellettuali sostiene che chi critica Conte vuole un governo con la destra o le elezioni. Proprio così: i “radiati” nel ’68 radiano il dissenso odierno a difesa dell’ordine costituito e in nome del “non diamo la parola al popolo”.
Quel che sta accadendo è un qualcosa di profondo: è il riproporsi di un vizio antico, quella sindrome da “figli di un Dio minore”, per cui la sinistra trova sempre più convincenti leadership esterne, si innamora sempre di qualcosa “altro da sé”, di uno specchio con la realtà che altrimenti non leggerebbe. È, in definitiva, la rinuncia a un’idea di vocazione maggioritaria e l’imbocco di un’altra via, quella di una minoranza che deve essere legittimata a governare, una volta, negli anni Novanta, con i democristiani e con un pezzo di establishment, adesso, nell’era dell’anti-establishment, con il “populista gentile”, nell’illusione che possano esserci populisti gentili e che, questo andazzo, non prepari, nel vuoto di un grande disegno politico nazionale, il populismo rude, di una destra rocciosa e radicata nel paese.
Cari compagni, quousque tandem abutere patientia nostra?
L’HUFFPOST
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