Smartworking ed e-learning impongono un cambio di mentalità, ma le pmi italiane non sono pronte. Gli ostacoli culturali e tecnologici da superare

Marco Cimminella

La pandemia di coronavirus ha messo le ali allo smartworking: la chiusura degli uffici non ha lasciato alternative. Ma questa spinta al lavoro agile non è sufficiente a cambiare le nostre abitudini. Non solo la Penisola sconta un’arretratezza tecnologica che mal si concilia con la necessità di una connessione veloce e sicura di chi svolge la propria professione da casa. Al contempo, i vecchi modelli culturali di pensare e organizzare il lavoro continuano a condizionare enormemente il business di tante piccole e medie imprese che costituiscono l’ossatura dell’apparato produttivo del nostro paese. “Non si può pensare ancora di remunerare una persona in base alle ore. Il dipendente deve responsabilizzarsi e gestire il tempo a disposizione in autonomia per il raggiungimento degli obiettivi richiesti dall’azienda”, spiega a Business Insider Italia Claudio Erba, ceo di Docebo, la piattaforma di e-learning su cloud per la formazione aziendale.

L’emergenza sanitaria ha in qualche modo accelerato un processo di graduale trasformazione delle modalità di eseguire il proprio lavoro, quando questo non è necessariamente legato al luogo in cui si svolge. Una tendenza valida soprattutto per i mestieri del digitale, ma che non si limita ad essi. “Anche istruzione e formazione a distanza sono una componente dello smarworking e l’autoisolamento richiesto dalle misure di lockdown le ha certamente favorite”, continua il manager, facendo notare che “in verità, è sempre stato inefficiente volare a Parigi o a Londra per formare 4 persone. Eppure solo ora, dopo la pandemia, sembra che molte aziende se ne stiano rendendo conto”.

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