Smartworking ed e-learning impongono un cambio di mentalità, ma le pmi italiane non sono pronte. Gli ostacoli culturali e tecnologici da superare
Claudio Erba, ceo di Docebo
A remare contro questo modello, disciplinato dalla legge 22 maggio 2017 n. 81, sono intervenuti alcuni fattori. Da un lato, un’infrastruttura tecnologica non sufficiente a coprire il potenziale fabbisogno del paese oltre a investimenti in innovazione non adeguati a colmare il divario con gli altri paesi europei. Dall’altro, “l’impreparazione delle aziende e la scarsa lungimiranza mostrata nell’ostinazione a traslare vecchie dinamiche del lavoro ai tempi attuali e nel non voler investire nel fattore umano”, sottolinea il ceo di Docebo.
Come scrive l’Istat nel suo report “cittadini e Ict“, l’accesso a internet e la copertura della banda larga sono i presupposti della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Nel 2019, circa il 24 per cento dei nuclei familiari italiani non aveva modo di collegarsi alla rete: “Il 76,1% delle famiglie dispone di un accesso a Internet e il 74,7% di una connessione a banda larga”, si legge nello studio, che sottolinea la mancanza di variazioni sostanziali rispetto al 2018 e ricorda il digital divide che penalizza il Meridione rispetto alle regioni del Nord e del Centro: “Il Trentino Alto Adige, il Veneto e il Lazio sono le regioni con la percentuale più elevata di famiglie dotate di connessione a banda larga”.
Istat, cittadini e Ict
Il gap non riguarda solo l’accesso alla banda larga, ma anche l’utilizzo di internet, dove si registrano forti differenze tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno (70,6% contro 62,5%). In particolare, segnala il rapporto, “la Puglia e la Calabria sono le regioni con la quota più bassa di utenti di Internet (rispettivamente 59,7% e 60,1%). Rispetto al 2018 si registrano incrementi apprezzabili per Sicilia (+6,6 punti percentuali) e Campania (+3,5 punti percentuali)”.
Una differenza significativa, che risalta ancor di più nel confronto dell’Italia con gli altri paesi dell’Ue. Il Desi 2019, l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società usato dalla Commissione europea per misurare la competitività digitale degli stati membri, ci vede in fondo alla classifica. Nonostante i miglioramenti della performance digitale raggiunti da tutti i paesi rispetto al 2018, la Penisola continua a essere il fanalino di coda: siamo al 24° posto su 28, al di sotto della media Ue in materia di connettività e servizi pubblici digitali. Più nel dettaglio, anche se la copertura a banda larga veloce e la diffusione del suo utilizzo sono in crescita, quest’ultimo rimane sotto la media Ue e sono ancora molto lenti i progressi nella connettività superveloce. Una debolezza tecnica accompagnata dalla carenza nelle competenze digitali: come scrivono gli autori della relazione 2019 sull’Italia, “tre persone su dieci non utilizzano ancora Internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base”.
Desi 2019, Commissione Ue
L’integrazione delle tecnologie digitali da parte delle imprese è ancora bassa in Italia, rispetto agli altri paesi Ue, ben al di sotto della media comunitaria. Nonostante alcuni progressi nell’uso di servizi e-cloud ed e-commerce, le aziende della Penisola non riescono a sfruttare le opportunità offerte da digitale. “Solo il 10 % delle PMI vende online (ben al di sotto della media UE pari al 17 %), solo il 6 % effettua vendite transfrontaliere e solo l’8 % circa dei loro ricavi proviene da vendite online”, si legge nel report del Desi 2019.
C’è poi un modello culturale e aziendale difficile da scardinare. “Oggi la produttività si misura in modo diverso. Non calcolando le ore di lavoro, ma il raggiungimento dei task assegnati al lavoratore. Gli smartwoker devono essere in grado di gestire il proprio tempo in autonomia per l’esecuzione dei propri compiti: in sostanza, devono decidere loro quale parte della giornata dedicare al lavoro e quale al riposo, sempre in funzione degli obiettivi da portare a termine”, puntualizzare il ceo di Docebo. Che aggiunge: “Quando poi gli obiettivi sono troppi e il carico di lavoro tende ad aumentare eccessivamente, è compito del manager che ha assegnato i task ridefinire il tutto. A volte ci sono capi incapaci di gestire tempo e risorse umane in modo efficiente. Anche loro andrebbero istruiti”
Lo smartworking, quando fatto bene, ha molti benefici, favorendo l’equilibrio tra lavoro e vita privata e riducendo l’impatto sull’ambiente che i nostri spostamenti casa e ufficio producono ogni giorno. “Già prima della pandemia, permettevamo ai dipendenti di lavorare da remoto il venerdì. In generale, questa modalità di lavoro ha contribuito a migliorare la nostra produttività al punto che, anche dopo l’esperienza dell’epidemia di covid-19, abbiamo deciso di adottare una soluzione ibrida: tre giorni da casa e due in ufficio”, spiega Claudio Erba, facendo notare che “ci sono tanti vantaggi, ma anche qualche lato negativo, come il senso di alienazione che si prova quando si lavora da soli a casa. Inoltre abbiamo notato che le interazioni urgenti sono molto più efficaci in presenza, mentre le attività routinarie si svolgono meglio a distanza. Con questo approccio ibrido, prendiamo la parte buona delle due forme di lavoro, tradizionale e smart”.
E se il mondo del lavoro diventa più virtuale, anche quello della formazione aziendale cambia. Tanti corsi e classi non si fanno più in presenza, perché è molto più conveniente organizzarli e tenerli su piattaforme digitali, in modo che chiunque, in ogni parte del mondo e quando vuole, possa seguirli. “La pandemia ha solo accelerato questo trend, anche se nel nostro paese siamo un po’ indietro”, commenta il manager di Docebo. “La nostra azienda è internazionale, quotata alla Borsa di Toronto, con un mindset molto anglosassone, ma è nata in Italia. All’inizio vendevamo solo qui, ma poi abbiamo allargato il business al di fuori dei confini nazionali. Ora meno dell’8 per cento del nostro fatturato viene registrato nella Penisola”, racconta Claudio Erba, spiegando il perché: “L’e-learning funziona soprattutto con le imprese più grandi, che hanno più di 500 dipendenti, per due motivi. In primo luogo, quest’ultime possono fare economie di scala. Secondariamente, le piccole aziende non hanno l’ambizione a scalare, a far crescere il loro volume d’affari o ad aprire nuovi punti vendita. Certo, spesso rappresentato l’identità della Penisola, ma non si può ragionare solo nell’ottica di tenere aperto. E se manca questo approccio, non si avverte neppure l’esigenza di investire nelle persone che lavorano con te e farle crescere”.
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