Dl Rilancio, le ombre sui tempi (e i modi)

Lo strumento prescelto è il decreto legge, un atto al quale si dovrebbe ricorrere — dispone la Costituzione — «in casi straordinari di necessità e di urgenza». Il governo non ha tenuto conto dell’urgenza, visto che il decreto era stato annunciato due mesi fa e dovrà ora passare al vaglio del Parlamento (è stato messo da parte un «tesoretto» per gli ulteriori appetiti), indaffarato nella conversione di analoghi provvedimenti (dal 23 febbraio il governo ne ha prodotti 11). Aggiungo che negli ultimi sei-sette mesi le Camere hanno dovuto fronteggiare già quattro proposte «omnibus», cioè contenenti centinaia di norme disparate, relative a tutti i settori (bilancio 2020, «milleproroghe», «decreto fiscale», «Cura Italia»). Le opposizioni hanno ragione nel lamentare (mozione dell’11 aprile) che lo Stato di diritto è violato e che il Parlamento non è messo nelle condizioni di poter vagliare questa massa di atti disparati, che rimangono solo sotto l’occhio (si spera vigile) della Ragioneria generale dello Stato. Prima conclusione: se la pandemia ha un ciclo ormai chiaro, l’azione di governo ha un ciclo oscuro, vive alla giornata, non sceglie né gli strumenti né i tempi giusti.

Fino a dove deve arrivare il risarcimento? Chi include e chi esclude? Questa è una decisione difficile. Ma costruita nel modo che si è detto, ha fatto nascere in tutti la voglia di salire sul carro, per cui il decreto legge è divenuto una sommatoria di proposte (256 articoli, 495 pagine). Se si voleva scegliere, bisognava darsi un obiettivo, stabilire criteri per selezionare e poi resistere alle pressioni, scegliendo le priorità. Ad esempio, non andavano risarciti gli studenti, ai quali è stata sottratta una buona parte dell’anno scolastico (il diritto allo studio non è meno importante del diritto al lavoro), donando loro, ad esempio, libri da leggere o computer per collegarsi con gli insegnanti, oltre ai tablet previsti dal decreto Cura Italia? Perché includere i dipendenti pubblici che non hanno avuto danni e hanno qualche volta trasformato lo «smart working» in cura di affetti familiari? Si è considerato che risarcendo alcuni e non altri si creano nuove diseguaglianze? Ponendo vincoli ai beneficiari non si corrono i pericoli propri dello statalismo? Come sono state calibrate le misure per tener conto dei molti evasori?

Quando la legge sarà approvata, sarà risolto il problema? I tempi ordinari dello Stato non corrispondono agli obiettivi e alle esigenze della crisi, specialmente se alcune norme sembrano scritte da un teologo medievale (vi si prevedono piani che contengono programmi operativi, che dispongono misure, ma nell’ambito di altri programmi operativi previsti da altre leggi) e se occorre attendere decreti attuativi, notifiche alla Commissione europea, decisioni degli organi collegiali, stati di avanzamento lavori, controlli amministrativi che rallentano i funzionari onesti e non frenano quelli disonesti. Il governo non si è preoccupato degli impedimenti prodotti da troppo pesanti sanzioni e da controlli preventivi, che bloccano l’azione esecutiva e non si è chiesto se si poteva operare delegificando, invece di produrre tante norme che ingessano le burocrazie. Si sommano qui la storica inadeguatezza degli uffici di staff dei ministri e la scarsa attenzione per la realizzazione delle promesse di politici impegnati nella rappresentanza e nella comunicazione.

Mentre le opposizioni e la maggioranza auspicano il ripristino di una normale dialettica parlamentare, il decreto detto «rilancio» proroga di sei mesi il periodo di emergenza, nel quale si può decidere in deroga alle disposizioni vigenti. A questo si aggiungono gli effetti permanenti sul bilancio dello Stato: ad esempio, le assunzioni graveranno per decenni, producendo costi stabili, che non preoccupano tanto per i vincoli europei, quanto per il giudizio dei mercati sul nostro debito. Il governo avrebbe avuto almeno un’altra alternativa. Invece di scegliere la direzione del risarcimento (quella del «dare», che confina con l’assistenzialismo), prendere la strada dell’accelerazione, cogliendo l’occasione della crisi per moltiplicare i suoi investimenti, sbloccando le procedure arrugginite, e per sgravare di vincoli, anche fiscali, gli investimenti privati, in modo da dare un impulso all’economia in generale, con ricadute in tutti i settori.

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