Il decreto c’è, il rilancio meno
Partiamo dal nome: decreto Rilancio. E poi passiamo ai 256 articoli contenuti in qualcosa di elefantiaco come sono le 464 pagine del testo approvato dal Consiglio dei ministri. Le norme dicono che i 55 miliardi all’Italia dilaniata dal Covid – i soldi di maggio e gli arretrati di aprile – sono distribuiti a tutti. Perché tutti hanno bisogno di un sostegno dopo due mesi di lockdown: lavoratori, imprese, famiglie. Il tratto è quello onnicomprensivo, ma è la declinazione di questo carattere omnibus che svela le fragilità del decreto. La prima: aiutare tutti non si traduce automaticamente in un aiuto adeguato per tutti. La seconda: la portata del sostegno è assistenziale, ma rilancia poco. Manca l’idea del Paese che si vuole ricostruire, il come, una direzione di marcia sicura in un contesto che intanto è evoluto, passando dall’emergenza sanitaria alla crisi economica.
Prendiamo in esame le due criticità prima di passare a vedere come emergono nello specifico tra le pieghe delle norme. Il carattere assistenziale. La rete di protezione c’è, si è allargata rispetto al primo intervento, quel decreto Cura Italia a cui l’emergenza aveva imposto il marchio dell’istantaneità. Ma quello che è avvenuto dopo ha ampliato il bisogno. Le fabbriche chiuse, i negozi con le saracinesche abbassate, così come i bar e i ristoranti, ma anche gli uffici svuotati e tutto quello che è stata la fase 1. Le maglie di questa rete sono aumentate sì, ma sono deboli, non trattengono il peso di un disagio che si è fatto più forte perché la crisi ha iniziato a presentare il suo conto, aggiungendo nuova debolezza alla debolezza strutturale del Paese reale. Ma anche per il ritardo dei soldi di marzo, arrivati a fine aprile e a inizio maggio, e tra l’altro non a tutti. La cassa integrazione, con quattro milioni di lavoratori che ancora l’aspettano, è lì a ricordarlo. Ecco che i nuovi aiuti per tutti non riescono a essere adeguati.
La seconda criticità è quella del rilancio parziale. Lo sblocco dei cantieri, la tanto ambita e mai realizzata sburocratizzazione, la semplificazione, un modo per usare davvero gli investimenti che ammontano a centinaia di milioni e però restano spesso sulla carta. Ecco, tutto questo manca. Manca un modello ponte Morandi, qualcosa in grado di dare più spazio e libertà di azione alle imprese ma anche di rendere più efficiente l’apparato dello Stato e di tutti i rubinetti, Inps o banche che siano. E manca anche una riforma fiscale. Il premier Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri, la rimanda a “un periodo di maggiore stabilità”. In un momento eccezionale sarebbe servito un intervento di sistema eccezionale, una deregulation finalmente libera dal fardello ideologico che si porta dietro da anni e cioè un mostro a tre teste che ambisce a ingurgitare regole e legalità.
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