Coronavirus, in Lombardia primi segnali di rischio della Fase 2: «Su Milano massima allerta»

E allora, quali sono gli elementi di fibrillazione? Partendo da una base di circa 900 casi al momento della riapertura, il 4 maggio, gli scenari «negativi» contemplano un aumento progressivo del 10 per cento (area verde) e del 20 per cento (area gialla). La demarcazione principale è quella dell’R(t), quindi l’indicatore che misura la forza espansiva della malattia. Se quel valore resta a 1, vuol dire che ogni malato infetta in media solo un’altra persona, e dunque l’epidemia è contenuta, e si presume in fase di ritirata.

Per il momento, considerando solo i nuovi casi accertati con il tampone, su Milano l’R(t) è allo 0,65 (ampiamente sotto controllo). Ma se si considerano anche i casi segnalati (cioè i probabili malati indicati dai medici e per i quali si attende il tampone), l’indicatore sale a 0,91. L’aspetto chiave è che, pur se con andamento moderato, a partire dal 4 maggio l’R(t) si sta lentamente rialzando e riavvicinando all’1. «Ma quello che sta davvero accadendo in questi giorni — avverte Carlo La Vecchia, epidemiologo e docente di statistica medica all’università Statale di Milano — lo vedremo soltanto intorno a metà giugno. Nelle case lombarde ci sono ancora molti casi di Covid e oggi, passata la fase critica, il 118 e il sistema sanitario hanno un monitoraggio corretto, dunque si scoprono più casi che nei mesi scorsi rimanevano “sommersi”. Al momento il sistema è in grado di seguire di più le persone, di curarle prima e meglio, e di accettarle in ospedale, se necessario, in tempi rapidi. Sarà il punto decisivo per le prossime settimane. A marzo la mortalità è aumentata molto perché i malati andavano in pronto soccorso in condizioni già critiche e venivano presi in carico con grande ritardo».

Su questo quadro è necessario considerare due elementi. Un’incognita e un profilo di rischio. La prima: una delle principali insidie del coronavirus è che tra momento del contagio e primi sintomi possono passare molti giorni, da una media di 5/6 a oltre due settimane. Significa che ogni volta che si tenta di scattare un’istantanea sulla circolazione del virus, si scopre non quello che sta accadendo nel presente o nel passato recentissimo, ma quel che è accaduto circa due settimane prima. Dunque oggi a Milano (anche perché il numero dei tamponi fatti dalla Regione sta aumentando parecchio) le autorità stanno scoprendo ciò che risale all’ultima fase del lockdown e (forse, in piccolissima parte) appena dopo. Se dunque ogni lettura epidemiologica, per quanto raffinata e approfondita, sconta questo ritardo temporale, gli analisti fanno massima attenzione a ogni minimo segnale di allerta: proprio perché potrebbe nascondere un aumento di contagi in divenire, non si sa quanto ampio, e che si manifesterà più avanti. Dato che nella natura di questa incognita si annida il profilo di rischio, tutti i tecnici guardano a quei segnali con una concentrazione primaria su Milano: perché nel capoluogo lombardo il coronavirus è circolato, ha fatto danni, ma in modo non devastante. La percentuale di popolazione già contagiata non supera il 10 per cento (è quel che dicono sia le stime, sia i primi risultati degli screening con i test sierologici), e dunque la platea delle potenziali vittime del virus è ancora molto vasta.

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