Riaperture, il peso della responsabilità in questa prova decisiva

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di   Roberto Gressi

Ci siamo rimasti male. Aspettiamo questo giorno dal sette marzo, quando l’Italia si è chiusa a contare i morti, in fila con la mascherina al supermercato, a cantare dai balconi, a fare i conti con i posti di lavoro perduti e con l’incertezza del futuro. Ci aspettavamo, ne avevamo diritto, una prova d’orchestra, l’ultima prima della riapertura di lunedì che affrontiamo con impazienza e un po’ di timore. Tutto pronto, ogni cosa al suo posto, niente stonature, per una «prima» dove è vietato sbagliare.

Sembra di rivivere invece la metafora felliniana di un’Italia mai cresciuta, pronta allo sgambetto, decisa soprattutto a coprirsi le spalle, maestra dello scaricabarile se le cose dovessero andare male. La scena della lite tra governo e regioni e tra governatori con territori ad alto e basso contagio ci doveva essere risparmiata. Alla fine un accordo si è trovato, era d’obbligo. Ma l’Italia che riparte ha bisogno di essere rassicurata e questo non è il modo.

I dati ci consentono un nuovo inizio, anche nelle regioni più sofferenti. La Lombardia combatte la battaglia più dura, ma anche lì l’indice di propagazione del virus continua a scendere. Merito di misure draconiane, merito degli italiani che con piccole, spiacevoli eccezioni hanno dimostrato di essere capaci di fare squadra smentendo i luoghi comuni. Adesso però si riparte davvero e sarebbe inaccettabile se gli interessi politici di parte scaricassero sulle spalle dei lavoratori, degli imprenditori e dei cittadini in genere tutto il peso e la responsabilità di una prova così grande.

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