A casa o in ufficio? Sfida tra big techSfida tra big tech
Certo, stavolta ci sono due novità importanti: una pandemia che ha imposto cambiamenti sociali senza precedenti per profondità ed estensione planetaria, e la disponibilità di tecnologie che consentono di replicare in video le riunioni di lavoro e di trasferire sui canali digitali la maggior parte delle attività che implicano collaborazioni interpersonali.
Non a caso sono stati i giganti del mondo digitale i primi ad adottare in modo massiccio e a lungo il lavoro a distanza. Fino a dopo l’estate, o addirittura fino a fine anno per quelli di Google, Facebook, Microsoft, mentre Twitter ha addirittura deciso di offrire, a chi lo desidera, la possibilità di lavorare in remoto a tempo indeterminato, senza riaffacciarsi più in ufficio. Ma Apple va in controtendenza, riaprendo gradualmente già a maggio la sua nuova e avveniristica sede, l’«astronave» di Cupertino: prevede una ripresa piena dell’attività in sede da luglio, pur mantenendo in alcuni casi la possibilità di lavorare in remoto.
Quanto ad Amazon, è l’incarnazione della nuova società diseguale di Reich: funzioni corporate gestite in telelavoro mentre l’aumento vorticoso delle vendite con consegna a domicilio in tempi di coronavirus ha spinto il gruppo di Jeff Bezos ad assumere ad aprile altri 175 mila dipendenti che si aggiungono ai quasi 800 mila che già lavoravano nei grandi depositi di smistamento delle merci e nei canali logistici della distribuzione. E, poi, c’è Elon Musk: abbiamo già raccontato la sua insofferenza per il distanziamento sociale e le forzature per tentare di riaprire gli stabilimenti. Certo, le sue sono produzioni manifatturiere, sia pure avanzatissime: difficile costruire auto elettriche, missili e astronavi lavorando da casa. Ma Musk non pensa a un trattamento diverso dei lavoratori della conoscenza, visto che ha piazzato fin dall’inizio le scrivanie di ingegneri, matematici e computer scientist nei capannoni delle fabbriche, in mezzo alle linee di produzione.
Quando usciremo dal tunnel della pandemia il mondo del lavoro sarà, comunque, diverso e con ogni probabilità la densità dell’impiego negli uffici si ridurrà, forse in misura sostanziale: non si tratta solo di comodità del lavoratore, ma anche, in molti casi, di convenienza delle aziende che, se riescono ad ottenere la stessa prestazione in remoto, possono risparmiare parecchio, soprattutto in città costose come New York.
La società di consulenza Global Workplace Analytics ha calcolato che la trasformazione del lavoratore fisico in virtuale fa risparmiare 11 mila dollari l’anno tra affitto, forniture e spese di manutenzione. Mentre dall’indagine Gartner (interviste a 370 direttori finanziari di grandi gruppi Usa) emerge che il 74 per cento delle imprese Usa intende trasferire stabilmente in remoto almeno il 5 per cento del lavoro mentre un numero inferiore – un quarto delle aziende – punta a un telelavoro superiore al 20 per cento del totale.
Insomma l’ufficio non sarà mai più lo stesso, servirà di meno, ma non verrà soppiantato: non è ancora emersa una cultura alternativa del lavoro. E i guru delle trasformazioni sociali ci stanno spiegando come correggere alcuni difetti fisici dello smart work – mal di schiena per le troppe ore passate lavorando dal letto o dal divano e circonferenza addominale che cresce – mentre ancora non è chiaro come si fa a mantenere viva la cultura di un’azienda a distanza e come sia possibile riprodurre in modalità remota la creatività del lavoro di gruppo.
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