Venezia, la città che muore di turismo e che senza turismo muore (di Ottavio Di Brizzi)
Cartolina veneziana, dalla Calle de mezo
Le strade piene
la folla intorno a me
mi parla e ride
e nulla sa di te
Come vivere in un paradosso, installati in un tempo sospeso e senza relazione con le coordinate dell’esperienza comune o con i principi elementari della logica: è frase fatta abbastanza frequente nel formulario e poetume associato alla vita a Venezia.
Se si supera il fastidio per la chiacchiera estetizzante e secolare metafisica sulle Serenissime divagazioni (Venezia è metafora di troppe cose per non essere cattiva metafora di tutte) la città in effetti si offre naturalmente alle contraddizioni, mettendole in mostra in modo plateale, con una incantevole disponibilità.
L’ospite inatteso, questo benedetto virus, è diventato un formidabile acceleratore, un incubatore o rivelatore istantaneo, come una marea fulminea e travolgente che si è abbattuta sulla città, un catalizzatore di processi in atto da decenni ma ora leggibili, puri e assoluti nella loro teatrale messa in scena. Un focolaio di contraddizioni, un epicentro (storico) per un paziente unico (più che uno).
La città che muore di turismo, la morte del turismo che uccide la città.
Ni avec toi, ni sans toi.
Davvero una bella gara tra inconvenienti del viver tra spettri (per non citare i poeti) nella Seconda Atlantide. Si sente parlare di bellezza da lasciare senza fiato, ma c’è già chi ha nostalgia del vociare continuo e brulicante, dei picnic davanti alla Basilica, perfino dei bagnanti che si lanciavano nei canali, quando i bacilli e i batteri non erano il nuovo nemico (è proprio vero che si può provare un solo dolore alla volta).
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