Venezia, la città che muore di turismo e che senza turismo muore (di Ottavio Di Brizzi)

Poco tempo fa, quando eravamo ottimisti, qui si parlava di una Smart Control Room per monitorare la mobilità, ora utile, urgente e attuale come l’Immunapp; il dibattito, sovente in forma di bassa speculazione politicante, verteva sul punto d’equilibrio tra diritti costituzionali alla mobilità delle persone e tutela di un colossale interesse collettivo. Quanto lontano sembra quel tempo, e quanto vane quelle parole in disordine sparso.

Quanto a paradossi o lezioni della storia, poi, quando nella storia erano arrivati peste, colera o tifo la Repubblica era stata tra le più pronte e radicali nell’applicazione e regolamentazione della quarantena, una misura tradizionale qui, in qualche modo.

Esplosive contraddizioni che altrove troverebbero soluzioni o almeno composizioni, qui si bagnano a una luce che le mostra in purezza, le dimostrano con scientifica esattezza.

In questi giorni disumani lo stridio dei gabbiani, lo sciabordio dell’acqua sulle rive scheggiate di pietra d’Istria, le campane delle cento e più chiese veneziane che risuonano senza convocare alcuna cerimonia, sono gli unici versi che si inseguono tra le calli di una città vuota.

Siamo ancora in quell’interstizio di tempo sospeso tra la fase uno, due, enne, e ancor più -temo per una lunghissima stagione- ostaggi in uno spazio svuotato, uno specchio che chiude il cielo, di pura distanza (asociale) e senza relazione. 

Non ci sono vie, a Venezia, men che meno vie di mezzo (la Calle de Mezo è solo una piccola strettoia che porta in Sant’Apollinare, niente di che come metafora). Qui davvero average is dead, da tempo.

La città dei riflessi, la grande galleria degli specchi a cielo aperto, la città a cui si associano da sempre immagini di cartapesta di insostenibili pieni, assembramenti surreali, colossali navi per dei goffi e ridicoli inchini a San Marco, il museo all’aria aperta per definizione invaso, assalito, violentato dalla folla anonima, alla fine della lunga quarantena, oggi, è come un corpo abbandonato e inerte, senza polso e senza battito, senza più il flusso dei mefitici foresti che ne avevano corrotto le calli, i rii, le piscine. E occupato le case (un quarto del totale si offriva su Airbnb, quasi sempre dagli stessi che lamentavano la barbarie).

Tutto è avvenuto così in fretta, ma su Venezia lo svuotamento, la bassa marea del covid-19, è avvenuta proprio quando la città riprendeva lentamente fiato dopo l’alluvione di metà novembre 2019. Qui ogni cosa è più radicale. Tutto è colossale o miniatura di pizzo verticale. Dal tutto pieno al tutto vuoto.

“Al tramonto tutte le città sembrano meravigliose, ma alcune più di altre”, il solito Brodskij, sui rilievi più morbidi, le colonne più rotonde, le nicchie più profonde, gli angeli più aerei a Venezia che altrove.

Il virus ha svuotato per settimane i centri urbani di tutto il nostro paese, e di gran parte del pianeta, ma la densità del vuoto in una città come Venezia ha qualcosa di radicale, solido, assoluto, non è solo assenza di presenza umana o sospensione degli scambi e dei traffici, ha un che di astratto, come un calco di una memoria senza forma, ha gli aspetti di un vero esperimento sociale.

Le enormi contraddizioni di una città/teatro diventano nell’isolamento da laboratorio della crisi pandemica una occasione pressoché unica per osservare al microscopio un processo in atto da anni, mille volte raccontato e lamentato, ma senza mai passare dalla preoccupazione alla occupazione.

In realtà la Venezia dei flussi, dei tornelli, delle mascherine non omologate, dell’invasione è solo una piccola parte della città, quella unica piccola arteria di Strada Nova che porta a Rialto e all’area marciana: chiunque vive qui sa che basta evitare poche aree e direttrici per godere tutto l’anno, tutti gli anni, del silenzio ora così assoluto, e così inquietante.

Le aree centrali oggi sono deserte, letteralmente nessun turista in giro (né in albergo, tutti chiusi), ma anche le fondamenta frequentate da veneziani – a Cannaregio, Castello, Dorsoduro – sono poco animate, anche chi in base ai mille decreti avrebbe potuto riaprire di fatto ha lasciato chiuse le saracinesche.

Riaprire, fase due, ma per chi?

I residenti sono sempre meno resistenti, meno di cinquantamila, solo un quarto probabilmente non vive di turismo, gli studenti non sono ancora tornati.

Uno shock di liquidità (ironia, qui) e il simultaneo crollo totale dell’unica economia esistente, quella della ricezione turistica, hanno gettato la città in uno stato quasi catatonico, un lockdown diffuso e inquietante.

Come una mareggiata riporta alla luce sulla battigia resti vegetali, conchiglie o stelle marine, il blocco prolungato del traffico acqueo in città lascia a vista tutte le ferite accumulate negli anni, rive che cadono in frantumi, pietra d’Istria sfregiata ovunque, voragini sotterranee che minano le fondamenta delle case.

Ma non erano di certo instabili o moderne quelle fondamenta che fin dal larice o rovere della fondazione indiretta della città servivano a sopportare il carico dei traffici, degli scambi di merci e persone. Non a caso a Venezia il termine fondamenta, che altrove si riferisce alla parte sotterranea degli edifici, indica una strada che corre parallela ai rii. Le radici e l’acqua, la solidità o adattabilità dei sistemi qui richiedono una lettura più complessa, un filo più raffinata.

L’economia della città è sempre stata basata sullo scambio, l’apertura, al commercio, in epoca moderna al turismo; così come la città è sempre stata in comunione con l’acqua (sìe ore ea cresse, sìe ore ea cala, dai tempi dei tempi), con cui si sposa ogni anno, all’Ascensione, la festa della Sensa. E non è mai stato fragile il suo ecosistema, come la retorica del servizio di porcellana da proteggere e custodire (e sussidiare) in una teca vorrebbe suggerire.

Un servizio (un lascito, che sia anche viatico) da usare con cura e attenzione, certo, ma da usare, per nutrire, per produrre, per alimentare una crescita, non solo una rendita.Ricondurre invece ogni attività produttiva in città al servizio di un modello basato su un flusso a senso unico di decine di migliaia di persone (fino a centomila nei periodi di punta), fino a 30 milioni di presenze all’anno, un modello (prima ancora estetico e culturale, vecchi ricchi decaduti e nuovi ricchi impoveriti) fondato su una economia da rentier in cui larga parte del reddito generato in città ha le forme del reddito da proprietà, rendita senza produzione di alcunché (si vive dell’affitto della stanzetta della nonna), unita a colossali interessi immobiliari e finanziari, da un commercio aspirazionale o direttamente pataccaro, ristorazione generica e servizi one-fit-for-all, è come giocare sempre a carta secca, avere come unica strategia di gioco l’all-in sistematico, anche con cartucce bagnate o scartine arrivate in sorte. Vale anche qui il noto aforisma sulla asset allocation del Nobel Markowitz (ma basterebbe anche un minimo di saggezza contadina), “Non è mai una buona idea mettere tutte le uova nello stesso paniere”.

Ma sui modelli sbagliati (e le presunte lezioni della Natura) si esercitano in tanti. Più in generale, quanti sospiri in queste settimane (“ah, il modello di sviluppo, il modello di sviluppo, signora mia”), quanta chiacchiera distesa tra un divano e un sofà sul “bisogna rivedere il nostro modello di sviluppo”, mai seguito da un esempio o un mattoncino di pars construens, perché a quel punto della conversazione cade sempre la linea…

Oppure i “Che bello, i pesci tornati nei canali”, “Quanto ti invidio, quel silenzio, quella luce”, “La città è di struggente bellezza, finalmente”, che gli amici mi scrivono dalle loro clausure altrove.

Non riesco a goderne, invece, non riesco a pensare che questa sia una forma di bellezza non sterile (evidentemente per alcuni è un bel proposito quello di “morire eleganti”, ma c’è una bella differenza tra rigore e rigor mortis).

Il ripopolamento dei canali è il riflesso dello spopolamento delle calli, in quel silenzio spettrale c’è una eco da galleria di specchi che si richiamano senza sosta e senza fuoco. Non è una carezza, quel venticello che increspa l’acqua, figuriamoci un abbraccio, di questi tempi poi.

Che fare, ora? I più ottimisti (o nostalgici) sperano sul ritorno della classe media e dei giovani andati in terraferma in cerca di migliori condizioni, sperano che si riformi una comunità residente capace di riprendersi gli spazi prima espropriati (certo, con grande disponibilità degli espropriati), poi subitaneamente abbandonati dai foresti, ospiti prima così coccolati e graditi.

Non si capisce perché ciò debba avvenire, soprattutto se nessun intervento pubblico lo renda realmente conveniente. Il passaggio di ritorno da consumatore a cittadino non è naturale, né gratuito.

Il vuoto creatosi andrebbe agito, non occupato in attesa del ritorno del turista, la casa andrebbe legata al lavoro, non adibita a foresteria in attesa di tempi migliori. Al momento sembra prevalere un #tuttosaràcomeprima, lo spartiacque del virus rischia di rimanere una semplice boa alla deriva.

Temo che questo grande Giardino (macchina teatrale e palco mobile di eventi) non possa vivere senza una intima connessione con l’Arsenale (fabbrica e piattaforma di creazione di prodotti, anche la meraviglia è un prodotto, anche il desiderio ha una economia), senza riportare in città luoghi di produzione (con arte, artigianato e cultura settori evidentemente privilegiati), senza valorizzare i poli universitari, senza ricostruire un minimo di tessuto connettivo della città con una classe media che possa vivere e lavorare qui, sapendo che è comunque più oneroso e difficile che altrove, che si tratta di una scelta e di una scommessa. Ma le scommesse vanno alimentate con quote attraenti, e le scommesse si possono anche perdere.

Scelte da sostenere (non sussidiare) con interventi e misure economiche concrete, con semplificazioni burocratiche, con forme di incentivazione fiscale, non generiche e autunnali malinconie.

È occupandosene, non preoccupandosene, che gli spazi vuoti verranno nuovamente abitati, agiti (non solo presi in affitto).  

Venezia, la città che muore di turismo e che senza turismo muore (di Ottavio Di

Un oggetto, dopo tutto, è ciò che rende privato l’infinito (Brodskij)

Tornato nella casa veneziana a Cannaregio dopo settimane di clausura altrove ho trovato un pacchetto nella buca delle lettere. Un acquisto che avevo dimenticato, su eBay, una pipa di radica rodata, a proposito di traffico di bellezza. Il venditore, per affrancare la busta, ha usato decine di francobolli da 300 lire (sì, si può, per Poste italiane quelli prodotti dal 1967 in poi non sono ancora scaduti). I bolli sono bellissimi, del 1973, della serie Salviamo Venezia, con la celebre immagine delle due colonne in marmo rosa e granito di Piazza San Marco, posizionate all’entrata verso il molo e il bacino, sorta di invisibile portale d’ingresso dell’area marciana. È l’entrata più celebre e più aperta alla piazza forse più bella del mondo, senza cardini né chiusure, su uno spazio completamente svuotato di presenza umana e interamente allagato.

L’immagine è ovviamente relativa all’acqua granda del 4 novembre 1966, quella dei 194 centimetri, quella che mandò in rovina centinaia di famiglie, mettendo letteralmente in ginocchio l’economia della città.

Ho sanificato la pipa, lucidata con della cera di carnauba, caricata con tabacco inglese, e sono sceso in fondamenta, a passeggio, nel silenzio delle volute di fumo, con in sottofondo solo il lamento del tempo.

  • L’HUFFPOST
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