Braccia sfruttate all’agricoltura: così il caporalato controlla la filiera alimentare
La norma non ha cancellato il problema, perché non ha agito sulle sue cause più profonde. Il caporalato non è tanto una disfunzione criminale del sistema produttivo. È la conseguenza diretta di un suo malfunzionamento. Nasce dall’inefficienza dei centri per l’impiego e dalla lacunosa articolazione tra domanda e offerta di lavoro. Si sviluppa e prospera là dove lo stato è assente. In alcune zone d’Italia, l’imprenditore agricolo che cerca manodopera si trova spesso senza alternative: per mettere insieme squadre di lavoratori in modo rapido ed efficiente non può far altro che rivolgersi a un caporale. Lo sottolineano gli agricoltori e gli stessi braccianti, che pure vedono le loro paghe decurtate: i caporali sono intermediari che coordinano la manodopera. Accade per i lavoratori stranieri ma anche per gli italiani, come ha mostrato in modo tragico la storia di Paola Clemente, morta nel luglio del 2015 nei campi di Andria mentre lavorava all’acinellatura dell’uva. La bracciante pugliese era impiegata da un’agenzia interinale che tratteneva parte della sua paga per il trasporto nei campi.
La cecità disumana con cui si è parlato dei braccianti immigrati
Quello sui lavoratori da regolarizzare è stato un dibattito avvilente. Dove il cibo non era più al servizio delle persone, ma viceversa. Mentre i partiti, per mero calcolo politico, hanno giustificato come “utile” ciò che era semplicemente giusto
Ancor di più il discorso vale per i caporali che agiscono nei cosiddetti “ghetti”. Gli insediamenti e le baraccopoli informali che pullulano nel Sud Italia – da Borgo Mezzanone a Torretta Antonacci nel Foggiano, da Metaponto in Basilicata a San Ferdinando in Calabria – sono centri di reclutamento. Le persone vivono lì perché è lì che stanno i caporali. È lì che si concretizza l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ed è da lì che partono i furgoncini per trasportare la manodopera verso i luoghi dove avvengono le raccolte.
Se si vuole cancellare per sempre questo flagello, è su questi aspetti che bisogna intervenire: garantire meccanismi di intermediazione legali, riattivare i centri per l’impiego, fornire alloggi dignitosi e possibilità di trasporto a tutti i lavoratori. Tutte misure peraltro previste dalla legge anti-caporalato, ma che finora non sono state pienamente messe in atto.
A questa è legata un’altra questione cruciale: quella dei salari. Sanzionando in modo duro il ricorso al lavoro nero, fino al sequestro preventivo dell’azienda agricola, la legge ha senz’altro migliorato lo scenario: oggi è raro trovare persone impiegate in campagna senza un contratto. Ma lo sfruttamento non è per questo scomparso. Ha solo cambiato volto. Il nero ha lasciato spazio al “grigio”: pur se regolarmente assunti, i braccianti sono spesso remunerati secondo un “salario di piazza” più basso di quello ufficiale, quando non sono pagati “a cottimo”, in base cioè alle quantità di prodotto raccolto. Dietro buste paga di facciata si nascondono remunerazioni in contanti fatte secondo precise tabelle di calcolo: un mazzetto di ravanelli vale due centesimi, un cassone di pomodori 3,50 euro, una cassetta di arance 50 centesimi. A queste cifre bisogna sottrarre la provvigione dovuta al caporale, che dà il lavoro e tiene i conti.
Ciò è reso possibile dal meccanismo di funzionamento del contratto agricolo, che prevede il pagamento a giornata secondo un conteggio che il datore di lavoro comunica alla fine del mese. Nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli, il numero di giornate denunciate è spesso inferiore a quelle effettivamente lavorate. È il classico segreto di Pulcinella. Tutti lo sanno e tutti si adeguano: durante lo sciopero nell’Agro Pontino dell’aprile 2016, le migliaia di braccianti sikh che si sono riversati nella piazza della prefettura di Latina non rivendicavano il rispetto del contratto, ma l’innalzamento del salario di piazza da 3,50 a 5 euro l’ora.
La questione però non riguarda solo i campi, ma l’intera filiera agro-alimentare. Caporalato e sfruttamento sono infatti parte integrante di un contesto più ampio. Se il lavoro agricolo è pagato così poco, è perché negli ultimi anni il cibo ha subìto un processo di progressiva svalorizzazione, guidato anche da chi lo fa arrivare sulle nostre tavole. Oggi in Italia più del 70 per cento degli acquisti alimentari è compiuto in un punto vendita della Grande distribuzione organizzata (GDO). I ravanelli raccolti a Sabaudia, le arance di Sicilia, gli asparagi del Foggiano finiscono sui banchi dei supermercati. Sono spesso venduti a prezzi ribassati, imposti a colpi di offerte e volantini per attirare i cittadini consumatori. Questi sconti sono scaricati sui fornitori che, per ottenere l’accesso allo scaffale, devono accettare clausole molto gravose: i contratti capestro, gli storni imposti a posteriori, le aste al doppio ribasso sono la regola nei rapporti tra supermercati e produttori. Schiacciati da queste condizioni, questi ultimi cercheranno di rifarsi sugli anelli più deboli della filiera, remunerando il meno possibile i braccianti. Il pagamento a cottimo, il salario di piazza, lo sfruttamento sono conseguenza anche di queste modalità di acquisto della GDO, che già nel 2013 l’Antitrust aveva definito “vessatorie”. Le pratiche sleali nella filiera alimentare sono oggetto di una direttiva approvata nel 2019 dal Parlamento europeo, che il nostro Parlamento dovrà recepire. Una legge che vieta in modo definitivo le aste telematiche al doppio ribasso è passata alla Camera a larga maggioranza l’estate scorsa, ma giace da allora in Senato.
Nel corso della pandemia, i supermercati hanno fatto affari d’oro. Divenuti gli unici canali di accesso al cibo per i cittadini consumatori, si sono assicurati ottimi incassi. Lo hanno potuto fare anche perché il settore agricolo ha continuato a garantire l’approvvigionamento nonostante le oggettive difficoltà. La sfida di domani dovrebbe essere questa: un rinnovato patto di filiera, con una distribuzione di valore equa tra i diversi attori che la compongono. Starà alla politica guidare questo processo, di cui la regolarizzazione dei lavoratori stranieri è solo il primo passo, più che mai necessario ma certamente non sufficiente.
L’ESPRESSO
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