L’inutile conflitto con l’Europa

È tipico di un modo infantile (ma assai diffuso) di considerare la politica, descriverla come se fosse un mondo popolato da orchi, streghe e fate turchine. Per molti italiani Matteo Salvini è una specie di orco, è l’orco di turno. Ma Salvini non è un orco. Come Beppe Grillo, Salvini è un leader abile e spregiudicato che ha fatto ottenere al suo partito risultati elettorali non immaginabili pochi anni fa. Solo che, come molte volte accade, egli è ora vittima del suo successo.

Il declino leghista, che adesso viene registrato dai sondaggi, era iniziato già prima della pandemia, con la sconfitta nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Una sconfitta strategica: Salvini aveva puntato tutto sul fatto che una vittoria in quella regione gli avrebbe consentito di rovesciare il tavolo, travolgere il governo nazionale. Ma quando si punta tutta la posta su una sola giocata, la sconfitta è l’inizio della fine.

Poi è arrivata la pandemia. Salvini ha preferito, sia pure con qualche incertezza, restare fedele al suo personaggio, ha perso forse l’ultima occasione che aveva per cambiare radicalmente politica. Salvini non ha capito che un Paese fragile e indebitato come l’Italia non si può permettere un conflitto con l’Europa. Non ha appreso la lezione che avrebbe dovuto apprendere quando finì all’opposizione: il governo Pd/5 Stelle fu allora reso possibile dal fatto che i 5 Stelle, solo poco tempo prima, erano andati a Canossa. Avevano votato, nel Parlamento europeo, a favore della elezione dell’attuale presidente della Commissione. Si erano comportati come se fossero un normale partito di establishment. Senza quell’atto l’attuale governo non sarebbe mai nato.

È sempre molto antipatico fare discorsi sulle persone. Purtroppo, quando si tratta di politica, non è possibile evitarlo. Perché esiste una relazione inscindibile fra persone e scelte politiche, fra i leader e le politiche adottate dai partiti che essi guidano. Il Pd di Zingaretti è diversissimo dal Pd di Renzi e lo è proprio perché è cambiata la leadership. La Lega non può fare eccezione.

Non è implausibile immaginare che in futuro la Lega — la quale, ricordiamo, nonostante la svolta lepenista imposta da Salvini, è prima di tutto un partito di amministratori locali — possa chiedere, e ottenere, di entrare nel Partito popolare europeo. Non è implausibile ritenere che la Lega possa sbarazzarsi di certe liasons dangereuses con la Russia. Non è infine implausibile immaginare un avvicinamento a Forza Italia e la costituzione di una «alleanza dei ceti produttivi» di cui è difficile negare che l’Italia abbia ora bisogno. Cosa impedirebbe allora una convergenza parlamentare fra una tale alleanza, i renziani e il Pd o, per lo meno, la parte del Pd che vuole rilanciare l’economia (di mercato), difendere la democrazia liberale, ribadire la scelta occidentale? La Lega, naturalmente, dovrebbe pagare un prezzo, ossia regalare ai 5 Stelle (e a Fratelli d’Italia?) gli elettori più arrabbiati, gli arrabbiati a prescindere.

Giovanni Sartori (che i lettori del Corriere ricordano), all’epoca della guerra fredda e delle sue acute divisioni ideologiche, definiva la democrazia italiana come un caso di «pluralismo estremo e polarizzato». Nelle democrazie siffatte il governo è controllato in permanenza da un partito di centro (la Dc nel nostro caso di allora) o da una coalizione di partiti di centro. Invece, le ali estreme (estrema sinistra e estrema destra) sono occupate da partiti che la maggioranza degli elettori considera forze «anti-sistema» (nel caso italiano dell’epoca, rispettivamente, il Partito comunista e il Movimento sociale). Siamo ormai lontani dai tempi della guerra fredda. Però nel Paese permangono profonde divisioni ideologiche. Non è detto che il «pluralismo estremo e polarizzato» sia solo il nostro passato. Forse è anche il futuro.

CORRIERE.IT

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