Dagli italiani una prova di civiltà. Alle loro paure vanno date risposte

In tre mesi isolati, con le città vuote e la paura dentro, gli italiani sono stati invece responsabili, seri. Come sono sempre stati nei momenti delle emergenze. Ma ci si rende conto? Da dodici settimane i bambini non vanno a scuola, le famiglie fanno i salti mortali per organizzare la vita, i negozi sulle cui saracinesche c’era scritto «Andrà tutto bene» ora hanno lugubri cartelli di «affittasi», milioni di persone sono in cassa integrazione, migliaia di imprese e di negozi hanno chiuso, le partite Iva sono in affanno. E tassisti, gente dello spettacolo, albergatori, librai, artigiani, ambulanti, avvocati… stanno tutti pagando un prezzo elevatissimo senza alcuna colpa. Ci sono le code, dolorose code, davanti al Monte dei pegni o agli istituti che concedono piccoli crediti. Decine di migliaia di famiglie hanno perduto qualcuno e non lo hanno potuto neanche salutare.

L’immagine di quei camion militari resterà per sempre nelle nostre menti. E chi insulta gli italiani, indicandoli come la causa del male? Quella politica, se la si può chiamare così, che ieri ha visto lo spettacolo delle risse in Parlamento, che ancora non ha deciso nulla sui tamponi, gli esami sierologici, le app che dovevano tracciare i contagiati prima della fine del lockdown e che ancora è nella mente di Dio. Tutto è difficile, vero. Ma allora sobrietà e senso di comunità sono preferibili all’antico vizio di scaricare il barile. Che non potrà essere credibilmente riversato, comunque, sugli italiani. Le persone che vedo per strada hanno, quasi sempre, sul volto mascherine pagate a prezzi assurdi o fabbricate da soli. Gli italiani si sono adoperati per gli altri. Lo hanno fatto i nostri medici, i nostri infermieri, i nostri volontari. Vorrei che si ricordasse questo tempo, quello fin qui trascorso, come un tempo di virtù di un popolo spesso accusato di cinismo, di impermeabilità alle regole, di ingovernabilità. Come diceva Mussolini? «Governare gli italiani non è impossibile, è inutile».

Ci siamo portati dietro questo marchio da sempre. Ed è stato un comodo alibi per alimentare la giungla burocratica, la conseguente corruzione, l’idrofobia per la decisione e il controllo, anima della democrazia. Fin dai primi giorni della pandemia ci siamo premurati di ricordare su queste colonne che questo capitale accumulato non è per sempre. Che la rabbia sociale prodotta dalla perdita del lavoro e dalla paura del futuro può avere sbocchi pericolosi. Dipenderà dalla prova che le istituzioni sapranno fornire, da quanto le persone sentiranno realmente vicino chi governa, a tutti i livelli. Quanto ciascun cittadino avvertirà chi ha potere come in grado di comprendere e risolvere il dramma che lui, incolpevole, sta subendo. Non norme incomprensibili e rimandi a decreti regi, non annunci di cose che poi si fermano in un labirinto di moduli e uffici, ma decisioni veloci, chiare, che fronteggino l’emergenza e, al tempo stesso, impostino un’idea di nuova fase di crescita. La mole di risorse che atterreranno sul nostro Paese deve essere usata per unire emergenza e prospettiva. Il Paese deve resistere e cambiare, insieme. Questo ci si attende dalla politica. Non insultate gli italiani. Portate rispetto per questo Paese ed evitate, con azioni veloci e concrete, che la responsabilità diventi rabbia.

CORRIERE.IT

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