Giuseppe Pignatone: “I reati e il carcere: è ora di cambiare tutto”
Lei abolirebbe il carcere?
Io credo che sia legittimo, e anche nobile, immaginare una società senza carcere. Chi si è trovato a fare il lavoro che ho fatto io, è il primo a sognare una società in cui il carcere non sia più necessario. Un mondo in cui i fatti gravi che lo rendono indispensabile non accadano più. Al momento, però, non è realistico crederlo. Non c’è un solo stato al mondo in cui il carcere non ci sia.
Perché?
Perché il carcere è necessario a garantire la sicurezza dei cittadini, quando non ci siano altri modi per farlo. Per esempio, lasciare che un mafioso affiliato alle organizzazioni tradizionali torni sul proprio territorio, significa consentire all’associazione a cui ha giurato fedeltà di reinserirlo immediatamente nel circuito operativo criminale.
Neanche Colombo propone di abolirlo per questi reati.
Bisogna entrare nel merito. Nei penitenziari, oggi, c’è un numero notevole di persone che sconta pene per reati gravissimi. Poi, ci sono persone che hanno commesso una serie di reati che, presi singolarmente, prevedono pene modeste, ma sommati raggiungono cifre alte. Ci sono quelli che hanno processi in corso e per cui il giudice ritiene ci siano esigenze cautelari, anche per evitare l’inquinamento delle prove. Infine, c’è un’altra fetta grande di persone – nella stragrande maggioranza, stranieri – che sono in carcere perché il giudice non può fargli scontare delle pene alternative, poiché non hanno una casa in cui andare.
Dove vuole arrivare?
A dire che, se si guarda dentro il carcere, diventa chiaro che esso è solo un frammento di un problema più vasto, che ha caratteri sociali, economici, politici. Affrontarlo come una questione esclusivamente penale sarebbe riduttivo e sbagliato.
Lei come lo affronterebbe?
Io sono entrato per la prima volta in un carcere nel 1974. Facevo l’uditore a Palermo. Mi occupavo di contrabbandi, oltraggi, poi sono cominciati i processi per mafia. La situazione delle carceri è cambiata molto, da allora. I valori costituzionali hanno fatto progressi enormi. Soprattutto, per merito delle persone che ci lavorano. Bisogna andare ancora più avanti, rifiutando culturalmente l’idea che il degrado – là dove c’è – sia un problema dei detenuti, e tanto peggio per loro. Questo è inaccettabile.
Secondo lei, oggi il carcere ha un orizzonte?
Nella maggior parte dei casi, siamo ancora lontani dall’idea del carcere di cui parla Francesco: una finestra aperta sull’avvenire. In alcune carceri, invece, questa possibilità è stata realizzata. I detenuti possono lavorare, istruirsi, prepararsi al futuro. È necessario un grande lavoro culturale e politico per spingere il carcere reale ad avvicinarsi sempre di più al carcere ideale. Riconoscendo quanto di buono è già stato fatto e proseguendo il cammino.
Per esempio?
Già oggi, come ha ricordato Luciano Violante, ci sono 53 mila persone che scontano la pena in prigione e 61 mila che la scontano fuori. È un risultato che venti o trent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile.
Lei come andrebbe avanti?
Da una parte, facendo un salto di qualità nelle depenalizzazioni. In molti casi, fatti che oggi danno vita a processi per truffa o appropriazione indebita sono solo questioni di natura civilistica, in molti altri casi basterebbe, come nel resto d’Europa, una sanzione amministrativa. Ciò alleggerirebbe il sistema penale, rendendolo più veloce ed efficace.
E dall’altra?
Aprendo un dibattito culturale, che coinvolga giuristi, filosofi, antropologi, sociologi, per stabilire su basi nuove quali siano i reati che giustificano il carcere in questo secolo, ripensando il processo penale a trent’anni dall’entrata in vigore.
Con chi ne parlerebbe?
L’avvocato Franco Coppi, in alcuni suoi interventi, ha posto il problema in termini che condivido, citando alcuni ‘fallimenti disastrosi’ del codice del 1989. Io penso che i giuristi italiani dovrebbero sedersi intorno a un tavolo, senza tabù e pregiudizi, e cominciare a discuterne.
In che sede?
Il senso di una discussione del genere è offrire al Paese una base sulla quale confrontarsi, e al Parlamento un progetto sul quale decidere. Non penso certo a un convegno tra addetti ai lavori. La riforma del processo penale investe la sfera culturale, sociale, politica. Deve essere discussa a tutti questi livelli.
Avrebbe nemici?
Un cambiamento del genere si scontrerebbe con i sostenitori dello statu quo, presenti in tutti le categorie del mondo della giustizia, così come nell’opinione pubblica. Il panpenalismo è uno degli aspetti di una cultura che alcuni chiamano populismo penale, dilagato negli ultimi anni. È ovvio che una riforma così profonda dovrebbe affrontare queste resistenze.
Da cristiano, il carcere le ha mai posto un problema di coscienza?
No, non ho mai avuto un problema di coscienza nell’applicare le leggi dello stato italiano. Credo che l’Italia sia riuscita ad affrontare anche i periodi peggiori della propria storia – come il terrorismo e le stragi di mafia – rispettando lo stato di diritto e la Costituzione.
Nemmeno di fronte al 41 bis?
Comunemente questo regime è noto come ‘carcere duro’. È un’espressione che ritengo fuorviante. Poiché il 41 bis non è stato pensato per aggiungere crudeltà alla pena, come l’aggettivo – ‘duro’ – lascia credere. È stato pensato per impedire le comunicazioni del mafioso con l’esterno. L’ho avuto sempre chiaro in mente. L’obiettivo – come dice ancora Papa Francesco – è ‘fare giustizia alla vittima, non giustiziare l’aggressore’.
L’HUFFPOST
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