Due anni di Giuseppe Conte, “monocolo in terra caecorum”
Due anni fa era il perfetto sconosciuto. Quel 23 maggio 2018, quando ricevette l’incarico di Governo, Conte veniva ancora confuso con Antonio, l’allenatore (entrambi pugliesi e con il toupè). Ora perfino Trump sa che il nostro premier si chiama “Giuseppi”. E soprattutto adesso nessuno più si metterebbe a spulciare il suo curriculum vitae per vedere se è taroccato o meno: la pigrizia collettiva si affida a Wikipedia, che lo celebra con un ritratto napoleonico.
Lo statista di Volturara Appula, “il primo presidente del Consiglio proveniente dall’Italia meridionale dal 1989″ (all’epoca era De Mita). In realtà Ciriaco, al confronto, fu una meteora; da segretario della Dc resistette a Palazzo Chigi soltanto 466 giorni laddove Conte, senza essere leader di niente, si è già arrampicato a 723, undicesimo nella speciale graduatoria dei premier più longevi. Un altro anno di Governo gli basterebbe per scavalcare in un colpo solo Mariano Rumor, Antonio Segni e Matteo Renzi. Se poi arrivasse in fondo alla legislatura, si piazzerebbe tra Aldo Moro e Amintore Fanfani, cioè nella Cupola dell’Italia post-bellica. Comunque lo si giudichi, l’uomo evidentemente possiede delle qualità che gli permettono di restare a galla, e che sarebbe rozzo ignorare.
Anzitutto Conte ha due santi in paradiso. Il primo si chiama Padre Pio, del quale si dichiara devoto al punto da portarne con sé nel portafoglio l’immaginetta. L’altro protettore, non meno potente, sta sul Colle più alto della Repubblica. Sergio Mattarella ci si è trovato bene fin dal loro primo incontro nel salottino presidenziale, quando avrebbe potuto rifiutarsi di consegnare il Paese all’avvocato del piano di sotto, come pretendevano Di Maio e Salvini, in pratica a un loro prestanome; invece sorprendentemente il capo dello Stato non sollevò obiezioni. Diede via libera incassando un bel po’ di critiche preconcette. Ma c’era forse un perché.
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