Salviamo l’ultimo giorno di scuola

La DAD, la didattica a distanza

Dei danni educativi, di istruzione, di didattica, che la fine definitiva e prematura dell’anno scolastico, deliberata con troppo anticipo per non pensare che i suoi motivi non siano solo sanitari, ma organizzativi, e forse anche sindacali, hanno già scritto in molti su questo giornale. I docenti hanno spesso — non sempre — fatto miracoli con la DAD, l’acronimo che sta per didattica a distanza — ma il «corpo docente» — ha notato Paolo Di Stefano — si chiama corpo non a caso: è davvero difficile insegnare da remoto a bambini tra i sei e i dieci anni. Poco si è invece discusso dei danni «sociali» che il vuoto lasciato dalla scuola comporta a quell’età. Perché crescita e maturazione sono fatte soprattutto di relazioni. E proprio queste sono venute completamente a mancare. Anzi, peggio, si sono trasformate in relazioni virtuali. Se è difficile per gli adulti tenere in vita un’amicizia, un equilibrio affettivo a distanza, solo su WhatsApp, per l’arcipelago di incomprensioni, confusioni, qui pro quo che una relazione digitale porta inevitabilmente con sé, figurarsi per un bambino che vuol dire cavarsela in una chat di classe. Liti e gelosie da playground, in tempi normali relativizzate dalla triangolazione fisica, dal linguaggio del corpo, da un risata, da una battuta, da una spinta, dall’arrivo di un altro amico, dalla presenza di un adulto, diventano «assolute» in rete, e sembrano tragedie, fratturano amicizie che si pensavano eterne, restituiscono una sensazione di irrimediabile solitudine. Forse è per questo che molte ricerche indicano una diversa risposta al lockdown da parte degli adolescenti, che sono stati generalmente meno travolti emotivamente e più capaci di recuperare il rapporto coi genitori: perché i teenager avevano già una pratica di relazioni virtuali, e hanno saputo gestirle meglio. Ma per i bambini più piccoli è stato un debutto troppo anticipato, un corso accelerato alla «insocievole socievolezza» del genere umano, che ha provocato un cumulo di dolori, certo recuperabili a quell’età, ma non meno turbanti. Sappiamo che era complicato fare diversamente. E del resto è ormai tardi per fare paragoni con altri Paesi che stanno riaprendo prima le scuole, innanzitutto perché ci si doveva pensare per tempo (ci si deve pensare per tempo anche per settembre) e poi perché non è che gli altri Paesi abbiano sempre fatto cose più giuste di noi. Ma è innegabile che la movida ha riaperto e la scuola no.

Il «Carteggio di solidarietà»

Nell’anniversario della morte di Aldo Moro, mi è capitato di leggere un libretto di Umberto Gentiloni sul «Carteggio di solidarietà», i diecimila messaggi spediti da gente comune alla famiglia dello statista durante e dopo il suo rapimento. La gran parte erano lettere di bambini delle elementari, in gruppi o da soli, che stavano elaborando quella tragedia nazionale di cui parlavano tutti, anche in casa, insieme a maestre e maestri. Ne venne fuori un esercizio collettivo di educazione civica che aiutò non poco a elaborare il dramma che viveva la nazione, e contribuì a tenerla in piedi. Di fronte al coronavirus l’assenza della scuola è stata anche questo: lo spegnersi della fiaccola della ragione, del dialogo tra pari età. Un danno incalcolabile. Ma forse ancora rimediabile, almeno simbolicamente. Se solo si consentisse, non dico ovunque, non dico per tutti, anche solo una classe per città, rispettando tutte le regole sanitarie, magari all’aperto, in un cortile o in un parco, a un gruppo di bambini italiani di dire addio ai loro compagni, per segnare la fine di un ciclo e l’inizio di un altro. C’è un membro del governo, la vice ministro Ascani, che dice che è possibile. Perché non ci proviamo almeno? Varrebbe quanto anche più di un sorvolo delle Frecce Tricolori, a dare fiducia e a testimoniare ostinazione.

CORRIERE.IT

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