Il piano europeo e i benefici per l’Italia

Un rapporto di un gruppo di politici ed economisti, istituito congiuntamente da Parlamento, Consiglio e Commissione, consegnato alle tre istituzioni nel 2017, raccomandava che il bilancio Ue 2021-2027 contenesse le innovazioni ora elencate. La Commissione Juncker, nel presentare nel maggio 2018 la proposta di bilancio per tale settennato, non tenne molto conto di quelle raccomandazioni. Il 20 febbraio scorso, dopo quasi due anni di discussioni, il Consiglio europeo dovette registrare la mancanza di accordo. Fu una fortuna. Se fosse stato adottato, quel bilancio sarebbe stato inadeguato, per importi, struttura della spesa e rigidità, a fare fronte alla crisi pandemica, che scoppiò la settimana dopo.

La presidente von der Leyen, dopo avere varato, così come Christine Lagarde alla Bce, misure di urgenza, ha compiuto a mio parere la scelta corretta: formulare una nuova proposta di bilancio 2021-2027 e collocare in quell’alveo i più massicci interventi del Recovery Plan, anziché affastellare interventi in una pluralità di fondi ad hoc, poco trasparenti e sottratti al controllo democratico esercitato dal Parlamento europeo. Grazie alla sua visione molto «strutturale», ha deciso di puntare tutto sul più classico degli strumenti, il bilancio, proponendo un bilancio più vicino alle esigenze di una finanza pubblica corretta e a quelle specifiche di una finanza pubblica che, se le sue proposte saranno adottate, potrà ben dirsi embrionalmente «federale».

L’Italia ha tradizionalmente auspicato questa evoluzione a livello europeo. Già questo dovrebbe favorire un apprezzamento da parte del governo e delle forze politiche del nostro Paese, il quale trarrà anche benefici ben più che proporzionali dal bilancio presentato. Speriamo che in Italia si sappia guardare con minore sdegno di quanto avviene per il Mes ai fondi che saranno resi disponibili dal Recovery Fund. Non si consideri un insulto se una parte dei fondi prenderà forma di prestiti, peraltro a condizioni favorevoli. Non si diffonda la pretesa che solo i grant, cioè i contributi, siano il modo in cui l’Europa può disobbligarsi con l’Italia per chissà quali torti inflitti al nostro Paese nei decenni. Soprattutto, si traduca grant come contributo, che non comporta rimborso, e non come contributo a «fondo perduto», nel senso di incapacità di fare uso corretto e produttivo, in termini economici e sociali, dei fondi ottenuti.

Non si respinga con rabbia l’esistenza di forme di condizionalità, se è intesa come verifica sul buon uso dei fondi, anche al fine di riformare strutturalmente parti dell’economia o dell’amministrazione pubblica che ne hanno veramente bisogno. Si cerchi di prendere in contropiede i Paesi «frugali», come l’Olanda e l’Austria. Invece di dire loro: «al diavolo le condizionalità che voi auspicate», si potrebbe dire loro: «non cercate di ridurre gli importi, come si dice che vogliate fare; e sappiate che l’Italia non ha nessuna paura delle condizionalità, anzi vogliamo che si estendano equamente a tutti i campi; un’Europa più unita deve potere, per esempio, anche frugare meglio nella vostra frugalità fiscale. Quando l’ha fatto davvero, qualcosa di non in regola con le norme europee l’ha ben trovato».

CORRIERE.IT

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