Quella mattina che uccisero Walter Tobagi

Solo nelle ore successive accaddero altre cose di cui ho una memoria più fredda. E cioè delle notizie, che si susseguivano in cronaca, di perquisizioni fatte dai carabinieri di Dalla Chiesa a casa di nostri colleghi, sospettati da tempo di essere amici del giaguaro: cioè dei brigatisti, i quali, più o meno nascostamente, godevano di qualche simpatia, o perlomeno di una qualche comprensione, all’interno delle redazioni.

Il resto è prima cronaca e poi storia. Si seppe presto che Walter era stato ammazzato da alcuni ragazzi di buona famiglia smaniosi di vivere il brivido della lotta armata. L’omicidio di quell’uomo di 33 anni solo e indifeso – senza scorta, bersaglio facile – era la prova del fuoco che questi sciagurati giovanotti avevano pensato di sostenere per guadagnarsi l’arruolamento nelle Brigate rosse.

A lungo si è sospettato che gli assassini avessero avuto la complicità – se non addirittura il mandato a uccidere – da parte di qualche giornalista del Corriere. Nella categoria, infatti, Tobagi non era amato. Non lo era per il fatto di essere uno dei pochi a sostenere una cosa tanto ovvia quanto allora scomoda, e cioè che le Brigate rosse erano rosse. E non lo era in quanto fondatore di una corrente sindacale, Stampa Democratica, che aveva preso il controllo dell’Associazione Lombarda Giornalisti, interrompendo dopo anni l’egemonia del sindacato filocomunista. Tobagi, poi, era un cattolico e aveva votato per il Psi di Bettino Craxi: due macchie sufficienti, allora, per meritarsi l’etichetta di reazionario.

La moglie Stella invece sospetta ancor oggi di un altro complotto interno al palazzo. Sospetta che dietro gli assassini ci fosse la loggia massonica P2, all’epoca ben rappresentata (e molto influente) in via Solferino. E non ha mai gradito – in questo, come altri familiari – l’appropriazione a suo parere indebita di Walter che avrebbero poi fatto lo stesso Craxi e un po’ tutti i socialisti.

Personalmente non credo che sia partito, dall’interno di via Solferino, alcun mandato a uccidere: né da parte dei colleghi che militavano a sinistra, anche estrema, né da parte di vertici aziendali legati alla P2. Degli assassini di Walter Tobagi conosciamo facce, nomi e cognomi: e credo che ciò basti, tanto più se inquadrato nel clima di violenza di quegli anni. Anni in cui furono in molti a sognare la rivoluzione comunista e a impugnare le armi per realizzare il sogno. Che poi ci siano state trame infiltrazioni e intrallazzi, tutto è possibile. Ma il terrorismo rosso era rosso, punto. Lo idearono e realizzarono centinaia di invasati convinti che se ne dovesse uccidere uno per educarne cento. Tobagi venne ammazzato proprio perché era uno dei pochi a scrivere questa elementare verità.

Morto lui, molte cose cambiarono. A partire dalle più piccole. Molti colleghi cominciarono a chiedere il porto d’armi, e il viaggio casa-lavoro diventò un incubo. Con il salire della tensione sarebbe poi sparito anche il parcheggio a spina di pesce all’ingresso del Corriere, per timore di una qualche autobomba. 
Tornai in via Solferino nel 1985, questa volta al Corriere della Sera, e poco prima dell’ingresso della cronaca, a piano terra, stava – un po’ infelicemente collocato in verità, in un angolo – il busto di Walter Tobagi, a futura memoria, a ricordare gli anni dell’odio e del piombo.

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