“L’Italia del nuovo boom deve fare la torta, non pensare a come spartirla”
Drogata, ma reale.
“Era reale, ma c’era un investimento straniero sull’Italia che noi siamo riusciti a ripagare quantomeno in bellezza. Abbiamo dato in cambio agli americani. Non solo non siamo diventati comunisti, ma gli abbiamo dato in cambio il cinema, Sofia Loren. Ora diventare ricco è impossibile. Degli amici miei, che hanno fatto il liceo con me, l’unico che si è comprato una casa con i suoi soldi, è uno che fa l’avvocato, che è partito a bomba vincendo giovanissimo una causa pazzesca contro un primario di Firenze, che non ha famiglia, è solo. E si è comprato la casa. Gli altri, me compreso, campano sulla casa del babbo”.
La teoria dello scambio piano Marshall-Sofia Loren è oggettivamente non priva di fascino, e ci porta senza colpo ferire al piano che dovrebbe salvarci ora. Al Recovery Fund appena battezzato a Bruxelles, nonostante i malumori dei cosiddetti ‘Paesi frugali’.
“Sarà un piano calvinista, che preveda l’autodisciplina e un senso anche spirituale della propria responsabilità, che è inapplicabile da noi, che stiamo ad aspettare che ci diano soldi a fondo perduto, e se non lo saranno, ci incazzeremo pure. Le condizionalità? Stai a vedere che adesso ti danno cento miliardi senza condizioni. Ma stiamo scherzando?
Insomma, per la prima volta non mi sembra che quelli che chiamiamo ‘Paesi frugali’ abbiano tutti i torti. Oggi non esistono soldi a fondo perduto, ma finanziamenti da restituire in 20 anni, investendo, lavorando, un’occasione per fare dell’Italia un Paese splendente”.
Insomma, con il regalo non può esserci boom, ma assistenzialismo, “e capisco se gli olandesi non sono contenti di darci soldi per finanziare il voto di scambio”.
Inutile perdere tempo in distinguo sulle modalità, ma “l’Italia deve prendersi i soldi, a condizioni favorevoli, e ricominciare a ripagare il debito con la bellezza. Ha funzionato, può funzionare di nuovo. Se c’è la possibilità di comprarsela, l’Italia, se la comprino, se la vogliono in ostaggio, facciano pure, bisogna però mantenere l’orgoglio della nostra indipendenza e dire: che cosa interessa al mondo di noi?
Ebbene, i nostri cervelli, e ce li portano via, le nostre bellezze, e le lasciamo deperire, il nostro cibo, l’arte, il cinema. Dobbiamo far questo, non è che possiamo inventarci un’altra cosa, perché questo ce lo riconoscono. L’Italia era una lezione a cielo aperto di come si fanno le cose, ed è durato fino agli anni ’70 quando abbiamo inondato il mondo di oggetti che sono ancora meravigliosi, che sono tutti al Moma adesso, ma che allora te li potevi permettere, uno come mio padre che era funzionario pubblico del comune di Prato se le poteva comprare. Ma vuoi mettere il design italiano col total white di oggi degli alberghi. Ora sei ricco, e che cazzo compri?”.
La
ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, coincise con la
modernizzazione del Paese. Allora c’era da fare le auto e l’autostrada
(del Sole), pezzi di città, fornire di elettrodomestici le case, oggi
tra smart working, attenzione all’ambiente, mobilità sostenibile,
l’operazione appare più sofisticata, ma siamo sempre lì, alla necessità
di un salto di scala tecnologico e culturale.
Veronesi ha qualche dubbio sulla riuscita dell’operazione.
“Il problema sa qual è? Che ci sono delle forze di natura contrarie a qualsiasi modernizzazione. La grande burocrazia non credo che si lascerà smantellare facilmente. Dietro a un apparato burocratico ci sono privilegiati con stipendi molto alti, che fanno cose ripetitive, e con la tendenza a scaricarsi responsabilità. Basta vedere come ha lavorato in questi mesi il Comitato tecnico scientifico, un apparato burocratico che non ha fatto che chiederti un bollo in più per non rischiare niente. Roba da Unione sovietica”.
Ma accanto a categorie sulle quali non si può contare, come “sacche della politica che non ne vogliono sapere, ci sono categorie di persone come le migliaia di giovani, di cervelli all’estero, che sarebbero felici di partecipare a una rinascita. Bisognerebbe farli ritornare tutti e dargli un’occasione. E’ la classe media che ha fatto emigrare i propri figli, e parlo dei miei figli, ma anche dei figli di molta gente che conosco”.
Un’altra categoria su cui puntare “sono gli immigrati, se si smettesse di fargli la guerra, di considerarli la ‘feccia’ del Paese, se venissero attratti – per esempio – nei borghi deserti degli Appennini e delle Prealpi. Queste persone lo farebbero con entusiasmo.”
Sono categorie “chiave da coinvolgere nel progetto”. Un progetto che però – secondo Veronesi – non può non prescindere da “una remissione del debito” dei Paesi e delle famiglie. “Siamo al momento del Padre Nostro”, il coronavirus ha creato iniquità, “attività che hanno lavorato di più e altre sul lastrico”, e ora “non possiamo permetterci che qualcuno grazie alla crisi diventi miliardario o consolidi ancora di più la propria ricchezza”.
Con questo tipo di ricostruzione, dovrebbe arrivare il boom.
“Il boom è un concentrarsi apparentemente casuale di forze e di energie positive, di eccellenze, che si esprimono liberamente tutte da uno stesso punto del mondo. Il problema vero è che noi ci stiamo accapigliando sul come dividerci la torta, ma non stiamo più facendone di torta. Prima la devi fare la torta per poi dividerla. Altrimenti senza giacimenti di petrolio o apparati economici finanziari, veniamo asfaltati. Dobbiamo tornare a essere il manifesto del come si produceva bellezza”.
Facevamo delle cose belle però eravamo spregevoli, almeno secondo la rappresentazione che il cinema ci dava, eravamo i Mostri, o il Cortona cinico del Sorpasso.
“Erano però belli i film in cui noi ci rappresentavamo nella nostra bruttezza, senza essere estetizzanti. Sceneggiatori, registi attori, direttori della fotografia, musicisti, costumisti, tutti insieme facevano un prodotto che incantava il mondo. Poi se il prodotto era “Brutti, sporchi e cattivi” o “Una vita difficile” dove veniva descritta una società o degli strati della società miserabili, questo non significa che quella era un’opera miserabile.
C’era una forma di pietas da parte di
persone apparentemente ciniche come Furio Scarpelli, che ho conosciuto
bene, che faceva il lavoro mio di romanziere senza scrivere libri. Era
uno che trasudava di pietas nei confronti di personaggi che
risutavano miserabili ed era ciò che rendeva belle le cose brutte.
Infatti non è che manchino oggi opere che raccontino la miseria, ma non
c’è la pietas. Che nell’arte è molto difficile da raggiungere,
rischi di essere retorico e fare delle cose inguardabili, oppure te ne
liberi e fai un racconto cosiddetto oggettivo, freddo, ma totalmente
respingente. Io onestamente di vedere come stanno le cose nei posti
difficili, non ce ne ho voglia… lo so che stanno così.
Se tu leggi
Celine, la miseria diventa una cosa meravigliosa. Se tu leggi la
Cattedrale di Carver, ti viene da diventare cieco. La bellezza è questa,
renderti complice anzi empatico con chi soffre, perché quella
sofferenza ti attrae. È una manipolazione, ma anche San Pietro è una
manipolazione, e noi a manipolare siamo i più bravi del mondo.”
A proposito di manipolazione, i due grandi vettori che creavano la percezione del boom nel Paese, come raccontato anche nel doc ‘l’Italia del Sorpasso’, erano il cinema e la televisione. Oggi abbiamo il web e le piattaforme che producono serie tv. Ce la faranno a sostenere un nuovo immaginario?
“No, perché sono una bolla. Sia quella delle serie che quella del web sono una bolla. Volendo separare il grano dal loglio rimarrebbe ben poco. Vogliamo parlare del cinema di allora? Era la testa a comandare. C’erano Antonioni, Fellini, Rossellini, Monicelli, Zampa… c’erano le teste e per conseguenza anche un movimento che loro però nel descriverlo, producevano. C’erano anche i produttori, ma non erano loro il motore come oggi, che se parli di una delle cose più belle che abbiamo visto in quarantena, come Last Dance, la serie su Michael Jordan, la gente dice: ‘Last Dance, la serie di Netflix’. Ma non è di Netflix! Dietro c’è un regista, degli sceneggiatori. E poi c’è un pericolo reale: stiamo producendo molte più cose di quelle che possono essere viste”.
Per non parlare del fatto che il settore della produzione di cultura è piantato al palo.
“Sì, ma qui temo che il coronavirus sia un pretesto per vecchi regolamenti di conti sindacali o tra organizzazioni. Nessuna categoria vuole rischiare più delle altre. Secondo me in tanti non vedono l’ora di ripartire”. E invece con lo stallo, “stiamo correndo il rischio New Orleans, dove, passato l’uragano Katrina i musicisti di strada – geniali, la vera ricchezza della città – non sono tornati più. Certo bisognerebbe evitare parole come quelle di Conte, gli artisti non sono quelli che ci divertono tanto, ma quelli descritti da Angela Merkel: il motore dell’ispirazione di una popolazione. In fondo le parole non costano niente…”
Chiudiamo osservando che nell’epoca del boom erano anche tutti accalcati. Assembrati, diremmo oggi. Su spiagge assolate come in Domenica d’agosto, nelle piazze, nelle fabbriche. E’ pensabile una ripartenza di un popolo costretto a vivere e a lavorare a distanza?
“Questi tre mesi sono stati uno choc. Certo che nessuna civiltà può andare avanti se le persone non si abbracciano, non esiste. Sembra una distopia del peggior Philip Dick, ma capisco che in questo momento non abbiamo altre armi”.
“Però
– chiosa Veronesi – io rispetto a quegli anni lì, avrei un’altra
osservazione da fare. A parte Aldo Fabrizi, erano tutti magri. Se ti vai
a rivedere i festeggiamenti in bianco e nero di Italia Germania 4 a 3
uscivano questi busti di locusta fuori delle 500 a sventolare le
bandiere. Noi siamo andati ingurgitando il pianeta, tanto che non c’è
più nessuno così magro. Siamo tutti sovrappeso. Quando eravamo ricchi,
eravamo magri”.
Insomma, quantomeno per ripartire, “ora che siamo
navi che non possono nemmeno avvicinarsi”, almeno per “non pesare troppo
sul pianeta”, più ova e meno junk food.
L’HUFFPOST
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