Radiografia di una rivolta
Il presidente repubblicano George W.H. Bush lesse un discorso nobile, di unità nazionale, la polizia di LA varò delle riforme e assunse nei ranghi più neri e ispanici, il peggio sembrò passare. Fino a quando l’uccisione del diciottenne nero Michael Brown da parte di un poliziotto bianco non incendiò, in tre ondate, dall’agosto 2014 all’agosto 2015, Ferguson, Missouri, ricordando alla nazione quando l’odio razziale resti alto e lanciando il movimento Black Lives Matter.
Per anni, anche sotto il presidente democratico Bill Clinton, la reazione diffusa alla criminalità era stata arrestare e tenere in galera un numero sproporzionato di neri, grazie alla legge dei tre reati, approvata nel 1994 e diffusa in 28 stati su 50, per cui tre condanne, sia pur per crimini non violenti, portano all’ergastolo. 2,3 milioni di persone sono in galera negli Usa e nel 2008, quando il numero era ancora maggiore, gli americani avevano il 25% dei 10 milioni di detenuti del mondo. I neri, 13% della popolazione, sono però il 40% in carcere, mentre i bianchi, 64% del paese, sono, dietro le sbarre, appena il 39%. Numeri che fanno parlare di giustizia e sistema penale come “controllo razziale”, anche perché i neri sono il 42% dei condannati a morte nel braccio della morte e, a chi obietta che la metà dei colpevoli sono comunque neri, vari studi, vedi il classico rapporto del professor David Baldus 1983, controbattono che le giurie possono dar pene minori a un bianco, per identiche condanne.
È questa la rabbia, con le ingiustizie quotidiane, le discriminazioni, la brutalità di una polizia che le riforme nazionali e locali, seguite al raid terroristico del 2001, hanno militarizzato nelle armi e nei modi. Nel 1992 era possibile, con un tesserino da reporter, ragionare con un poliziotto a un posto di blocco, ora non più. Nel traffico, a una manifestazione, in città o in campagna, ogni disputa con la polizia finisce male: molti poliziotti sono ex militari reduci da Afghanistan e Iraq e i dipartimenti ricevono armi da guerra, dagli arsenali dell’esercito.
Questa tragedia incendia l’America dopo la morte di George Floyd a Minneapolis. Gli estremisti, di destra e sinistra, si dovranno identificare, insieme ai saccheggiatori, la disinformazione di matrice russa e cinese andrà sradicata, la polizia riformata, ma alla fine il tema è storico. Secondo il consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Robert O’Brien, non ci sono problemi, “il 99,99% dei poliziotti è perbene”, ma anche nel partito repubblicano si osserva finalmente che la violenza è di sistema e va affrontata senza indugi.
Tim Scott, unico senatore nero, eletto in Sud Carolina, prova a spiegare che i tweet del presidente, evocando sparatorie, cani feroci e armi da guerra, arsenale dispiegato contro il reverendo King e i suoi mezzo secolo fa, non distendono gli animi.
Chiuso alla Casa Bianca, da giorni circondata da dimostranti, il presidente non corre alcun pericolo, benché a un certo punto, per una minaccia non identificata, il Secret Service non l’abbia fatto scendere nel Peoc, il Presidential Emergency Operation Center, a prova di bomba atomica, scavato dapprima per Roosevelt durante la guerra mondiale e rifugio per il vicepresidente Cheney l’11 settembre.
Il presidente è irritabile, nervoso, rifiuta di imitare Bush padre e parlare al pubblico, preferisce ripetere “Legge e Ordine”, slogan di Nixon 1968. Eppure Nixon, nel maggio del 1970, al picco del potere, fece qualcosa di cui i suoi collaboratori non seppero mai dare spiegazione. Lasciandosi alle spalle gli agenti del Servizio Segreto di scorta, seguito dal capo di gabinetto Bob Haldeman, poi travolto dal caso Watergate, Nixon sgattaiola fuori dalla Casa Bianca, va al Lincoln Memorial, dove i pacifisti sono accampati, e si mette a spiegare loro le “politiche in Vietnam e in Cambogia, se non mi son spiegato in conferenza stampa lo faccio adesso…”
Nixon era un politico duro, ma persuaso che le sue idee fossero migliori di quelle degli hippies, come li chiamava con disprezzo Halderman, e che la sua strategia fosse il solo modo per chiudere la guerra nel Sud Est asiatico. Trump non ha la sua fede nella forza di convinzione e nel carisma, non ha ancora voluto parlare al paese, cerca una strategia per mobilitare la propria base ed essere rieletto il 3 novembre grazie alla paura “degli anarchici” Antifa, gruppo che vuol mettere fuorilegge come “terrorista” anche se la legge non lo consente per i partiti locali, solo per gli stranieri.
La sesta notte di battaglia si contano 5 morti, dodici stati in coprifuoco, centinaia di milioni di danni, migliaia di feriti. Un esperto della rivista Columbia Journalism Review è persuaso che la polizia sembri fare bersaglio dei cronisti. A De Kalb e Atlantic avenue, a Brooklyn, la polizia ha caricato con le auto i dimostranti, il sindaco De Blasio è accusato dalla deputata di sinistra Alexandria Ocasio-Cortez di non essere duro con gli agenti, nelle ore in cui sua figlia, Chiara De Blasio era arrestata a sua volta sulla Dodicesima Strada. Ho visto i dimostranti sotto l’Hotel che porta il nome di Trump, a Columbus Circle (solo la sigla, la proprietà è da anni di un diverso gruppo), li ho seguiti in fila alla Settima Avenue, mascherine sul viso, ma tutti insieme. Ho visto tra di loro i bravi ragazzi, lavoratori e studenti, le facce dei duri dietro la bandana colorata da cowboy contro le telecamere di sicurezza e ho letto dei due arrestati per aver provato a incendiare un’auto della polizia, con bottiglie Molotov. Non sono teppisti delle gang che svaligiano i negozi e picchiano i commercianti e neppure fascistelli di Boogaloo che si infiltrano armati a seminare caos, sono Urooji Rahman, avvocatessa di 31 anni di un gruppo per i diritti civili, definita “un angelo” dagli amici, e il suo coetaneo Colinford Mattis, anche lui avvocato, laureato a Princeton University e specializzato a New York University. Una telecamera mostra la Rahman, licenziata durante la pandemia, con in mano la Molotov realizzata da una bottiglia di birra: l’ordigno ha colpito l’auto della polizia senza esplodere e una pattuglia ha poi arrestato i due avvocati.
Questa è New York, questa è l’America negli ultimi giorni dell’amara primavera 2020. A Los Angeles Rodney King, scomparso nel 2012, implorava dalla radio “can’t we all get along?” non potremmo andare d’accordo tutti? Ora tocca al vescovo Michael Curry dell’Episcopal Church di Washington predicare, la domenica di Pentecoste: “Comprendo la rabbia in strada, ma scegliamo l’amore”. King era un semplice operaio edile, il vescovo Curry un colto prelato, ma il loro grido di disperazione ha esito uguale nella guerra di strada 1992-2020, nessuno sembra ascoltarlo. Mentre sua eccellenza Curry parlava, a Lafayette Square bruciava la storica chiesa di St. John eretta nel 1816 e in cui han pregato tutti i presidenti, da James Madison a Trump.
L’HUFFPOST
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