L’alternativa del diavolo

Alla fine, la sensazione che resta è quella di un immenso sforzo di Nicola Zingaretti per raddrizzare, detta in modo un po’ gergale, ciò che è nato storto. Generoso, sinceramente animato da quell’antico senso di responsabilità nazionale che, più volte nella storia del Pd, è diventato un cappio a cui il partito è rimasto appeso, dai tempi di Monti. E, proprio per questo rischioso, proprio nel momento in cui oggi, come allora, l’attuale assetto di governo può diventare l’incubatore di un’ondata populista di tipo nuovo nel paese.  

C’è, nella relazione del segretario alla prima direzione del Pd post lockdown (a proposito: una cosa seria, d’altri tempi con cinque ore di dibattito) questo faticoso cimento, potenzialmente drammatico: la consapevolezza che, se si va avanti a colpi di “casalinate”, in autunno arriveranno i forconi, con la destra pronta a indirizzarli verso palazzo Chigi e, al tempo stesso, la consapevolezza che non ci sono alternative a questo governo, almeno per come si è messa finora. In quanto impraticabili: per le larghe intese manca una destra decente, per andare al voto manca una legge elettorale che non consegni il paese a Salvini, ma anche la disponibilità dei tacchini di questo Parlamento ad affrontare il Natale, e così via. È addirittura complicato financo cambiare qualche ministro, in un paese dove riaprono le balere ma poco si capisce sul ritorno a scuola, perché anche se il Pd sarebbe favorevole, in queste delicate operazioni sai dove si comincia ma non si sa dove si va a finire.

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