Il Recovery Fund fa svoltare il Fisco europeo: ci sarà una tassa comune. E potrebbe non piacere a Trump
Fra le partite cruciali ancora aperte c’è: chi paga? Il problema non è urgente: la Ue comincerà a ripagare i debiti che, nei prossimi mesi, farà sui mercati, solo dal 2028. Ma la soluzione peserà sugli equilibri europei del futuro, perché Ursula punta a qualcosa che i governi – e anche i parlamenti nazionali – hanno finora costantemente rifiutato alla Commissione: risorse proprie e indipendenti. In altre parole: tasse.
Attualmente, i fondi del bilancio Ue provengono dalle tariffe doganali, ma oltre l’80 per cento del bilancio comunitario proviene dai contributi dei singoli Paesi, calcolati in base al Pil e al gettito Iva. Ora, però, per ripagare agli investitori i 750 miliardi di euro che Bruxelles intende rastrellare, le possibilità sono tre. Mantenere il bilancio com’è ora, stornando verso il Fondo per la ripresa i soldi che, abitualmente, vanno alla politica agricola, ai programmi di sviluppo regionale eccetera. Oppure, mantenere il tradizionale flusso di spese, aumentando il bilancio, con un incremento dei versamenti dei singoli paesi. Insomma, o versare di più o prendere di meno. Altrimenti, rimane solo la strada di tasse europee.
L’ultima è l’ipotesi che piace di più alla tecnocrazia di Bruxelles, regolarmente sconfitta su questo terreno (l’ultima volta nel 2018). Oggi, però, i governi potrebbero preferire rinunciare a qualche quota della sovranità fiscale che, finora, hanno gelosamente custodita, piuttosto che essere chiamati a raccogliere i fondi dai contribuenti in prima persona. L’obiettivo dichiarato della Commissione è arrivare ad un gettito annuo di 15-20 miliardi di euro. Ma con quali tasse?
L’idea più semplice, anche se per ora assai vaga, è quella di tassare le grandi aziende che operano su scala europea e che abbiano un fatturato globale di almeno 750 milioni di euro. In due parole, sarebbe una sorta di contributo – graduato secondo le dimensioni della multinazionale – per l’accesso al mercato unico e alle sue centinaia di milioni di consumatori. Gettito messo in conto: 10 miliardi di euro l’anno.
L’idea più ovvia è ecologica: una tassa europea sui rifiuti di plastica non riciclabile. A Bruxelles calcolano che potrebbe dare un gettito di 7 miliardi di euro l’anno.
L’idea più semplice, invece, ma più costosa per le aziende, è rimettere mano al mercato dei diritti alle emissioni di CO2 che oggi devono comprare le aziende più inquinanti, alzandone il costo. Se ne potrebbero ricavare fino a 10 miliardi di euro l’anno.
L’idea più comoda è una tassa sui big del digitale, da Facebook a Google, tassandone il fatturato realizzato in Europa. Più comoda, perché tutti i paesi europei ci hanno pensato, suscitando le ire di Trump. Attribuirla a Bruxelles significa spostare il confronto con Washington a Bruxelles. Il gettito però sarebbe contenuto. Circa un miliardo di euro l’anno, secondo prime valutazioni.
L’idea, infine, più giustificata è anche la più difficile: la carbon tax. Ovvero, tassare le importazioni dal resto del mondo in Europa sulla base del contenuto in CO2. A pagarla sarebbero le aziende di paesi che non hanno mercati delle emissioni come quello europeo. Ci guadagnerebbero le imprese europee che, oggi, dovendo comprare i diritti alle emissioni, hanno un extracosto rispetto ai concorrenti internazionali. Il problema non è la Cina che sta attrezzando un mercato come questo, ma gli Usa. Trump la considererebbe una dichiarazione di guerra commerciale. Gettito? Fra i 5 e i 14 miliardi di euro l’anno, a seconda di come fosse costruita la tassa.
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