Calunnia Capitale
Alla fine, di Mafia capitale, nella mia memoria rimane soprattutto questa gigantesca, stomachevole calunnia di Roma. Nelle propaggini di una pavonesca inchiesta su quattro rubagalline con quartier generale in una pompa di benzina di corso Francia, o qualcosa del genere, è stata costruita una scenografia di cartone col palazzo comunale di una capitale trimillenaria, distributrice di sapienza ingegneristica, militare, giuridica, teologica, artistica, architettonica, avvolto nei tentacoli della piovra. Le avete viste le belle fiction? I film piovosi del sottoscala di Blade Runner, coi cardinali con le chiappe all’insù a spartirsi autostrade di cocaina e fanciulle in fiore col ministro e il tagliagole di Ostia? Ce lo siamo venduti bene il brand, no? Ci siamo giocato bene quel poco di decoro e di amor proprio per due piotte.
Ha ragione il sommo avvocato Cataldo Intrieri quando dice che l’opposizione al populismo giudiziario alla lunga arriva proprio dalla magistratura. Sono via via usciti dal processo, perlomeno per le mirabolanti implicazioni mafiose, l’ex sindaco Gianni Alemanno, gli assessori, gli uomini della Regione e, i pochi rimasti a risponderne, hanno risposto di faccende di corruzione che no, non è una bella cosa, ma non è mafia. Se fosse stato per corruzione non uno di quei corrispondenti di testate mondiali avrebbe piantato le tende all’alba davanti all’aula del processo per guadagnarsi la prima fila. E, infine, per certi cocciuti del bla bla e dello gne gne, alla Matteo Orfini o alla Virginia Raggi, e cioè del sì però la mafia a Roma c’è – bella scoperta, no? – è vero, la mafia a Roma c’è, come c’è a Palermo, a Milano, a Londra, a New York, ma non accoglieva i suoi mammasantissima nelle stanze dell’amministrazione comunale, e fino in quella del sindaco. Eccola la madornale differenza che ha prodotto la madornale calunnia.
Io me le ricordo le settimane precedenti la caduta del sindaco Ignazio Marino, trascinato all’autodafé su un palco del Laurentino 38 dai boss del nuovo corso della purezza del Pd, che dicevano mai più la mafia nel partito, per prenderselo e condurlo alla festa di piazza dell’Onestà. Me lo ricordo quel soldatino di piombo di Luigi Di Maio che invocava lo scioglimento per mafia del comune di Roma, come se fosse una frazione da sparatorie di Palmi. Me lo ricordo quel guappo del dopocena di Alessandro Di Battista che incitava i picciotti del Pd e del Pdl a confessare, anche anonimamente, in cambio del perdono (gulp!), per sgominare quel lordume a canne mozze. Me la ricordo l’esagitata e demente campagna elettorale, quando i contendenti si disputavano il ruolo di eroi incaricati dal destino di salire a piantare la bandiera dei liberatori, come l’Armata rossa sul Reichstag. Allora sembrava il delirio, adesso, visto da qui, dopo la pubblicazione di ieri delle motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha illustrato perché non era Mafia capitale, non era nemmeno mafia e basta, sembra solo miseria.
Roma è l’enormità della storia dell’uomo. Le ha sempre fatte le sue porcate, ma le ha sempre fatte in cambio della grandezza. Questa è stata fatta per piccineria, per la micragnosa disputa dell’anima candida e della vanagloria di uno strapuntino, e al prezzo della calunnia di una città che porta il titolo di eterna. Nessun delitto sarà mai all’altezza di questo rasoterra.
L’HUFFPOST
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