Csm e crisi, i tormenti del Colle
Non è forzato scorgervi un salto di qualità, in questa tenaglia tra preoccupazione crescente e senso del limite. Perché la questione è squadernata e riguarda la delegittimazione che investe la magistratura italiana, in un quadro in cui, di fronte all’intreccio tra toghe e politica che emerge dallo scandalo Palamara, né la politica, nel suo complesso, né la magistratura, hanno mostrato una consapevolezza e una capacità reattiva. A fronte cioè di questa assillante urgenza è altresì squadernata l’assenza di un’azione tempestiva e determinata che tuteli e rilegittimi la magistratura agli occhi degli italiani, evitando che, nella propaganda politica e nel senso comune, venga buttato via assieme all’acqua sporca delle degenerazioni anche il bambino, e cioè l’ordinamento giudiziario nel suo complesso.
Ecco il punto, più volte gli appelli alla riforma del Csm sono caduti nel vuoto, e con essi la sollecitazione a uno scatto istituzionale. Chiedere al capo dello Stato di dettare o imporre una riforma al Csm e al Parlamento equivale a invocare una “supplenza”, all’interno di un quadro in cui il presidente del Consiglio non mai avvertito la necessità di un discorso alle Camere, così come i presidenti dei due rami del Parlamento, né le singole forze politiche. Neanche quelle che, quando al Colle abitava un capo dello Stato “supplente” della politica, ne denunciavano l’attitudine monarchica o minacciarono l’impeachment quando l’attuale esercitò le sue prerogative al momento della formazione del governo. È un punto molto delicato il rispetto, scelto da Mattarella, di questo confine che poi rappresenta l’essenza del suo settennato parlamentarista in tempi di populismo. La rinuncia cioè a pilotare politicamente la crisi, indirizzandola di fronte al paese oltre la moral suasion, pur ravvisandone tutti i fondamentali. È evidente che, nella cerimonia odierna, c’è tutta la consapevolezza che la questione giudiziaria è a un bivio, sottolineato nell’intervento-denuncia del vicepresidente Ermini verso chi “insudicia il proprio ruolo con pratiche da faccendiere”. Così come è evidente la consapevolezza che siamo arrivati a uno snodo delicato della questione sociale, che impone quella “concretezza” negli atti di governo, sottolineata dal capo dello Stato nel primo giorno degli Stati Generali e ribadita con l’invito a dare risposte rapide sui fondi europei, nel corso del pranzo odierno col premier i ministri alla vigilia del Consiglio europeo.
È un “fate presto” il senso del messaggio, su tutti i fronti, che reca in sé il timore che tra un po’ sarà troppo tardi. Messaggio che in fondo è rassicurante, che poggia in un caso sulla fiducia che magistratura sia ancora in grado di autoriformarsi perché il corpo nel suo complesso è sano, al netto delle degenerazioni, e che il governo, nell’altro caso, sia in grado di fare le riforme scuotendosi dall’immobilismo. Rassicurante, in definitiva, nei confronti della politica nel suo insieme cui viene ancora concesso un credito sulla propria capacità di correggersi. Se così non fosse, e fosse già troppo tardi, quel tormento e quel rispetto del limite assumerebbero un carattere drammatico perché, anche a volerlo oltrepassare, i margini sarebbero assai più stretti.
L’HUFFPOST
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