Indro e Karima
Stamattina, mentre leggevo l’articolo di Karima Moual sulla Stampa, ho avuto un attimo di smarrimento. Conosco Karima, abbiamo lavorato insieme, è brava, è un’amica. Questo posso dire: la stimo e le voglio bene. La sua era una riflessione attorno a Indro Montanelli e alla statua imbrattata, e si apriva – senza scandalo né autocommiserazione – sul tweet ricevuto da uno sciagurato che la chiamava puttana e le prometteva un coltello alla gola, ché non doveva permettersi di giudicare noi, italiani e bianchi. Ma non è stato quello l’attimo dello smarrimento. E’ stato poco più avanti, dove Karima scriveva del “nostro Paese”. Non capivo. Non mi tornava il ragionamento. Ho ricominciato il paragrafo e subito sono arrossito. Ho avuto dispiacere di me stesso. Il “nostro Paese” non era il Paese di Karima e di qualcun altro, era il nostro, il suo e il mio, come è logico che sia, come dovrebbe essere, senza l’eccezione di un solo istante.
Quanti pregiudizi ci sono dentro di me? Sono nato nel 1969, ero un bambino nella provincia bergamasca degli anni Settanta. Non esistevano immigrati. Nella nostra scuola di campagna arrivò un ragazzino di Imola (ciao Carlo), lo accogliemmo come fosse un virus, non era uno di noi, era diverso, lo chiamavamo l’imoloide con tutta la grettezza e la crudeltà, nella loro purezza, di cui sono capaci i bambini. Non durò a lungo, ma durò. Ci toccò, forse inconsapevolmente, giorno dopo giorno, di fare i conti col nostro pregiudizio.
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